
Cronaca / Como città
Domenica 28 Settembre 2025
La fine della Ticosa: quel telex da Parigi e la rabbia della città
La chiusura Il 3 ottobre 1980 la comunicazione. De Simoni scrisse: «Dirigenti incapaci, azionisti cretini»
La fine della Ticosa, che segna anche l’inizio di una pagina ancora oggi lontana dall’essere chiusa e fatta di incarichi, progetti, promesse, dibattiti infiniti, consigli comunali e giunte, convegni e polemiche, fu decretata dal telex arrivato da Parigi alle 18.44 del 3 ottobre 1980.
Quarantacinque anni fa. Dalla Pricel (la multinazionale a cui faceva capo la fabbrica di via Grandi) gli azionisti inviarono il documento (datato in realtà 2 ottobre) con cui annunciavano la cessazione dell’attività.
Una decisione improvvisa, nonostante la situazione di crisi fosse nota e oggetto di discussione da tempo, che scrisse - di fatto - i titoli di coda di una storia che non riguardava solo la tintostamperia, ma che da decenni era intrecciata con quella della città e delle (tante) famiglie degli operai che tra sudore, telai e stoffe, sostanze chimiche e amianto passavano giorni e notti. Lavoratori che, quella sera, anziché tornare a casa si fermarono in fabbrica riuniti in assemblea permanente per cercare di salvare (invano) i loro posti di lavoro e le loro famiglie.
I licenziamenti
Solo due giorni prima in consiglio provinciale si analizzava lo spettro di 207 licenziamenti (quasi la metà della forza lavoro) già annunciati dalla direzione, ma il dibattito era stato aggiornato alla settimana successiva, segno che nessuno si aspettava il precipitare delle cose.
Tornando alle 18.44 di quel 3 ottobre di 45 anni fa le cronache dell’epoca pubblicarono quasi tutto il documento nel quale gli azionisti spiegavano perché la chiusura fosse inevitabile. «Bien reçu ?» si chiudeva, con il sapore dell’ironia più amara, l’ultimo foglio.
«Quello di ieri – scriveva nel suo editoriale l’allora direttore de “La Provincia” Gianni De Simoni - resterà nella storia della Ticosa, una delle aziende più grosse della nostra comunità, il “giorno zero”. L’azienda da anni non andava bene. Da mastodontica qual era, più di 2.000 operai negli anni ’50, s’era ridotta a 515 unità lavorative. Le voci di crisi si susseguivano, di mese in mese, ma nessuno poteva prevedere la decisione presa, ieri come dicevamo, a Parigi dagli azionisti della società». E ancora: «Le parole sono racconto, ma quando si fanno cronaca diventano di pietra».
I documenti inviati da Parigi erano impietosi nel loro susseguirsi di numeri: riassumevano gli investimenti, mettendo nero su bianco che, nelle ultime fasi in cui l’azienda navigava in pessime acque, di soldi ne avevano bruciati parecchi. Qualcosa come 13 miliardi di lire in due anni.
«Gli azionisti – si legge nel telex - hanno fornito un supporto finanziario di 9 miliardi di lire nell’arco di tempo dal 1978 al 1980 evitando in tal modo il crollo della società. A questo conferimento di capitale vanno aggiunti 4 miliardi di lire ricavati dalla vendita di componenti dell’attivo immobiliare e industriale. Questi 13 miliardi sono stati inghiottiti dalle enormi perdite di gestione della società».
Impietosa fu l’analisi di De Simoni: «Se si guardano le cifre del bilancio – scriveva lo storico direttore - si possono fare un paio di osservazioni: gli azionisti della Ticosa sono stati dei cretini e si sono affidati per far gestire la loro azienda a dirigenti incapaci. Non si può lasciar navigare un’azienda fra i debiti per dieci anni, poi di colpo ridimensionarla e potenziarla, come si sostiene, per poi permettere alla stessa di perdere 13 miliardi in meno di due anni. E questo senza intervenire o intervenendo solo all’ultimo brutalmente con un “ci dispiace ma non possiamo far altro”. Prima di arrivare a questo punto bisognava tentare l’avvio della vendita dell’azienda stessa. Bisognava mandare nell’azienda dei dirigenti competenti (e ne bastava uno e non dieci o venti)».
«Offesa ai lavoratori»
De Simoni spiegava poi come a fare impressione non fosse la situazione, ma «come gli azionisti della società abbiano gettato nel “calderone” 13 miliardi in meno di due anni senza alcuna prospettiva. È questo che segna offesa ai lavoratori ed a tutta la città. Non sappiamo cosa si può fare per la Ticosa. Siamo certi, però, che il mondo produttivo comasco saprà trovare in se stesso la capacità d’intervenire. È vero che la società è francese, ma il bene ed il male dell’azienda erano e sono a Como».
Il suo sprone «dal “giorno zero” si può rinascere» è rimasto sulla carta (finora) da 45 anni perché Como, a quel giorno zero, è ancora oggi.
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