La sfida di Giacomo. Da Como all’Appennino per coltivare la vite

La storia Ha deciso di trasferirsi nel paese del nonno. Da dieci anni lavora la terra con il sogno di fare il vino: «Tanta fatica, ma sto imparando giorno per giorno»

Se non è la siccità sono i cinghiali, o i caprioli, o il modo di tagliare la vite, o la giusta quantità di stallatico. Il lavoro di Giacomo Consonni nella sua vigna di Portico, in provincia di Forlì, è da dieci anni una lotta contro gli elementi. Nulla di epico, sia chiaro: «Alla scuola di agraria mi hanno insegnato che con le piante c’è una sola regola: dipende», racconta questo giovanotto comasco, nato al Valduce 32 anni fa (nel reparto di cui è primario suo padre Roberto, ginecologo come la mamma) e approdato dieci anni fa alla terra dopo aver capito che la pratica gli si addice molto di più della teoria («Dalla scuola sono uscito per buona condotta», scherza).

Un diploma alla scuola di agraria di Monza, il podere di venti ettari acquistato dai genitori nel paese dei nonni, sull’Appennino, e l’avventura è iniziata. «Con la consulenza di un’agronoma abbiamo bonificato una decina di ettari per la vite e un piccolo uliveto», racconta. Da allora è stato un apprendimento quotidiano, perché l’arte della coltivazione della vite è fatta di tanti piccoli e grandi segreti. La vigna di Giacomo, dopo tanto lavoro, ha attecchito bene e cresce, ma di uva non ne produce ancora abbastanza per pensare di produrre il vino: «Metà è merlot e metà riesling italica. In questa zona si produce il Sangiovese e l’Albana, bianco. E un giorno, appena la vigna inizia a fare annate serie, riuscirò a produrre il mio vino».

Nel frattempo, visto che bisogna pur mantenersi, nei mesi in cui la vite è ferma lavora come dipendente in un’altra azienda agricola. E anche lì è tutta roba che si impara e che torna buona in vigna. Finora Giacomo è giusto riuscito, tre anni fa, a portare alla cantina di cui è socio un camion di uva che è finito nel cosiddetto “mischione" , cioè nel calderone indistinto delle aziende ancora senza etichetta. Insomma, una strada lunga e tortuosa, della quale peraltro è difficile vede la fine: e qui torna la regola aurea del verde imparata a scuola. «Quanto tempo ci vorrà? Dipende. Dal tipo di vite, dall’altitudine, dal clima, da come tratti la pianta, dalle tecniche del biologico. Nel mio caso, ci vuole un botto di tempo».

Ora, per esempio, è alle prese con un impianto di irrigazione: «Pensavamo di poterne fare a meno, ma con questa desertificazione e il fatto che siamo sull’Appennino diventa necessario. Un anno a causa del secco mi sono morte 3500 piante», spiega. Poi c’è la lotta agli animali selvatici: «Sono partito con una recinzione troppo bassa, un disastro. Ora non solo è più alta ma è percorsa dalla corrente elettrica prodotta da pannelli solari». “Trial and error” chiama il suo metodo, prova ed errore. «In fondo la terra, la vigna, ti formano il carattere», dice. Ma il suo vino lo farà lei? «No, non ne so nulla di vinificazione. Ma so che se è vero che il vino si fa in cantina, la qualità del vino si determina sul campo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA