L’ultima sentenza sull’omicidio di don Roberto Malgesini: «L’assassino sapeva quel che faceva»

Il processo I giudici di Cassazione spiegano le ragioni del rigetto dell’ultima richiesta difensiva: «Mahmoudi era in grado di discernere il bene e il male». Dovrà scontare 25 anni di carcere

La Cassazione, depositando le motivazioni del rigetto dell’ultimo ricorso presentato dalla difesa di Ridha Mahmoudi, ha scritto la parola fine sul fascicolo penale che aveva riguardato la barbara uccisione – davanti alla chiesa di San Rocco – di don Roberto Malgesini. La difesa del tunisino, condannato dalla Corte d’Assise di Como all’ergastolo, pena poi scesa a 25 anni in Appello, aveva cercato di giocare l’ultima carta presentando un ricorso firmato dall’avvocato Sonia Bova. Atto che i giudici romani hanno dichiarato «inammissibile».

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«Scollegato dalla realtà»

Uno solo era stato il motivo presentato dalla difesa, imperniato sulla critica alla perizia psichiatrica che – disposta in Appello – aveva dichiarato Ridha Mahmoudi capace di intendere e di volere. Secondo il legale del tunisino, quell’elaborato era inattendibile per diversi motivi, a partire dal fatto che gli incontri con i periti erano stati solo tre e per pochi minuti, in considerazione anche del fatto che quando avvennero il cinquantaseienne tunisino era anche sottoposto a una cura farmacologica che dunque avrebbe potuto “falsare” i risultati. Secondo la difesa, insomma, Mahmoudi agì «in un momento di delirio», essendo «scollegato alla realtà».

Inammissibile

La Cassazione però, nel chiudere la vicenda penale, ha dichiarato inammissibile questo ricorso sostenendo – prima di tutto – come valutare la capacità di intendere e di volere non spetti comunque ai giudici ma ai periti: «Possiamo solo valutarne la correttezza metodologica». Tuttavia, la Cassazione è andata oltre sottolineando come Ridha conoscesse bene la realtà esterna e fosse in «grado di discernere il positivo dal negativo degli eventi», dato che i «suoi strali erano dosati e diretti non verso tutti ma solo contro coloro che non rispondevano alle sue aspettative».

I giudici romani hanno anche fatto un riferimento alla presunta non attendibilità della perizia fatta con il tunisino sottoposto ad una cura farmacologica: «Una tesi che se accolta – scrivono i giudici – renderebbe inutile qualsiasi perizia psichiatrica», compresa paradossalmente anche quella su un «soggetto magari davvero non capace ma sottoposto a terapia».

Mahmoudi, insomma, ottenne lo “sconto” di pena in Appello non per questioni di capacità o meno di intendere, ma per quello che fece dopo l’uccisione di don Roberto, quanto cioè camminò fino alla caserma dei carabinieri di Como per autodenunciasi: «L’ho ucciso», gridò. Proprio quel gesto, quella sorta di rivendicazione dell’omicidio, ha finito con il giocare un ruolo fondamentale in questa storia perché per i giudici dell’Appello, la confessione che Mahmoudi fece nell’immediatezza dell’omicidio poteva da sola «legittimamente fondare il riconoscimento delle circostanze attenuanti», in quanto quella ammissione non fu una «confessione dell’evidenza» ma al contrario «un fondamentale indicatore per la ricostruzione del fatto». Senza quella ammissione – in pratica – per l’accusa sarebbe stato difficile provare la premeditazione. Per questo si passò dalla pena a vita ai 25 anni, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante della premeditazione e alla recidiva.

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