il mio gino, ucciso dall’odio
oggi non cerco più giustizia

«Spero che chi mise quella bomba sia diventato genitore - dice Maria Rosaria, vedova del brigadiere Luigi Carluccio - E che possa capire il dolore che ha provocato a me e a mio figlio. Sono cattolica, credo nel perdono»

Pensi che nemmeno sapevo che il mio Gino facesse l’artificiere. Non l’aveva detto mai a nessuno. Non a me, non ai suoi genitori. A nessuno. Sapevamo che in questura svolgeva soprattutto lavoro d’ufficio, così diceva lui, e che stava sempre in abiti borghesi, quasi mai in uniforme, ma che disinnescasse le bombe, quello proprio no. Credo che lo avesse taciuto per proteggerci. Non voleva che ci preoccupassimo».

La signora Maria Rosaria aveva 22 anni quando suo marito, il brigadiere di polizia Luigi Carluccio, morì dilaniato dall’esplosione di un ordigno collocato all’angolo tra viale Lecco e via Luigi Sacco. Era il 15 luglio del 1981, e la notte era quella che sarebbe poi passata alla storia come la “notte dei fuochi”.

Maria Rosaria e Gino erano genitori da otto mesi. Il 15 novembre del 1980 era nato Alessandro, che oggi è in polizia come papà. Un anno e mezzo di fidanzamento, un anno e mezzo di matrimonio, vita a Scorrano, a due passi da Maglie, Salento meridionale, case basse e immacolate, le Murge da una parte, dall’altra il mare di Otranto e quello di Castro, più a sud il vento e i cavalloni di Leuca.

I responsabili di quell’attentato non furono mai individuati.

Signora, cosa ricorda di quel giorno, di quel 15 luglio?

Ero a casa, stavo dando da mangiare ad Alessandro. Venne mia madre: vedi che Gino ha avuto un incidente, mi disse, va’ da tua suocera. I miei suoceri abitavano al di là della strada. Quando arrivai la voce si era già sparsa, e la casa era piena di gente. Di solito al mattino accendevo sempre la tv mentre quel giorno avevo preferito accendere la radio. Soltanto musica. Sono convinta che mio marito non volesse farci sapere. Poi vennero i suoi colleghi, mi caricarono in auto e mi portarono fino lassù a Como.

Un viaggio lungo.

Un viaggio lunghissimo e faticoso. Faceva un gran caldo. Per tutta la durata del tragitto non smisi mai neppure per un attimo di pensare che fosse un errore. Chiudevo gli occhi e vedevo mio marito che mi dava coraggio, che mi tranquillizzava. Mi illudevo che fosse un sogno. Finché non arrivammo all’ospedale.

Come vi eravate conosciuti?

Era anche lui di Scorrano, il mio paese. Era l’estate del 1977. Io frequentavo l’ultimo anno delle superiori, mentre lui era già in polizia. Passò davanti a casa mia e mi vide. Io stavo lì con le amiche. Nei giorni successivi passò una seconda, una terza, una quarta volta... Ci sposammo dopo un anno e mezzo di fidanzamento. Nel frattempo lui aveva frequentato il corso da artificiere a Roma senza mai farci sapere nulla ed era stato trasferito a Milano.

Lei non lo seguì?

No, non lo seguii. Gino aveva chiesto di potersi avvicinare e il fatto di avere la famiglia lontano poteva rappresentare un vantaggio per l’accoglimento della sua domanda. Però tornava a casa ogni fine settimana, sempre in treno. Faceva una vita un po’ folle, ma ci teneva, soprattutto dal giorno in cui era diventato papà.

Quando lo vide l’ultima volta?

Un paio di giorni prima che morisse. Il 6 luglio a Scorrano si festeggia Santa Domenica, che è la patrona del paese, e lui aveva voluto esserci, come ogni anno. Aveva aggiunto anche qualche giorno di ferie ma poi era ripartito perché a fine mese suo fratello si sarebbe sposato. L’idea era quella di tornare la settimana successiva. Pensi che proprio in quei giorni di luglio, mentre lui era con me, io sognai la morte. All’epoca stavamo in una casa con una grande vetrata. Nel sogno vidi due mani appoggiarvisi. Le dissi vattene… Ma lei rispose che sarebbe tornata. E tornò. Chissà.

Ricorda qualcosa delle indagini? I colleghi di suo marito le dissero mai nulla?

No, nulla mai.

Che uomo era suo Luigi Carluccio?

Era un uomo speciale, che emanava una luce speciale. Mi voleva felice. Amava scrivere, poesie ma non solo. Nostro figlio Alessandro ha avuto la possibilità di conoscerlo proprio attraverso i suoi scritti.

Pensa ancora alla possibilità, dopo 43 anni, di avere giustizia?

No, non più. Oggi confido nella giustizia divina. O quantomeno nel fatto che gli artefici di quell’attentato siano cresciuti, abbiano messo su famiglia, abbiano cambiato vita e siano magari diventati a loro volta genitori, perché possano almeno immaginare il dolore che ho vissuto io. Sono molto cattolica, così come lo era il mio Gino, un ragazzo di profondissima fede.

Crede nel perdono?

Sì, certo. Ma a volte è davvero difficile.

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