«Mio padre è morto da solo
E noi siamo state abbandonate»

La tragedia di una famiglia di Rebbio: «Mia mamma ha più di 70 anni. Io sono immunodepressa. Ma nessuno è venuto a farci il tampone per capire se fossimo rimaste contagiate anche noi»

«Mio papà era un lottatore. Per dieci giorni ha combattuto, ma alla fine della scorsa settimana ci hanno chiamati dall’ospedale per dirci che non c’era più».

La voce di Nunzia Barberino si incrina per un istante. Per il dolore, certo: «Io e mia mamma, ora, siamo in quarantena, costrette in casa. Non siamo neppure potute andare a dargli l’ultimo saluto». Ma anche per la rabbia: «Mia mamma ha più di 70 anni. Io sono immunodepressa. Ma nessuno è venuto a farci il tampone per capire se fossimo rimaste contagiate anche noi. “Non ce ne sono più” ci è stato detto. Poi accendo il telegiornale e scopro che nel caso dei calciatori, però, per loro ci sono eccome».

Saverio Barberino aveva 81 anni, due figli di cui andava orgoglioso e la scorza di chi ha passato la vita a fare l’operaio: «Ha lavorato per più di 35 anni alla Sisme di Olgiate Comasco - racconta, con orgoglio, la figlia – Ma non era mai fermo: quando c’è stato bisogno ha fatto il muratore, e poi appena poteva faceva l’orto. Non stava mai fermo» ripete, con il tono di chi, mentre parla, scava nei ricordi migliori alla ricerca di un’immagine bella da portarsi al cuore.

«Anche quando si è fratturato il femore – continua il racconto di Nunzia – il mio papà ha reagito e si è rimesso in piedi. Anche grazie a mio fratello, che in alcuni casi è stato le gambe e le braccia di nostro padre».

A fermare il lottatore, che viveva da sempre a Rebbio, è stato il maledetto virus. Entrato in casa Barberino all’improvviso, in modo subdolo, camuffato da una febbre che nessuno, all’inizio, aveva interpretato come il sintomo del coronavirus.

«È iniziato tutto una decina di giorni fa – prosegue , questa volta frugando tra i ricordi più dolorosi, la figlia – Ha cominciato a non star bene, ma né noi né il nostro medico di famiglia abbiamo pensato che potesse essere il virus».

L’allarme era appena entrato nel vivo, ma i casi nel Comasco erano ancora poche decine: «La febbre, dopo i primi giorni, si è fatta sempre più alta. Ed è cominciata la tosse, ma non aveva problemi a respirare». Eppure il Covid aveva già colpito: «Il medico ci ha dato un antibiotico e ci ha detto di abbassargli la febbre con la tachipirina. Quando la prendeva la temperatura scendeva, ovviamente, salvo poi subito dopo tornava anche a 40». In un periodo differente, senza questa perenne maxi emergenza che ha blindato gli ospedali, nessuno avrebbe avuto dubbi sul fatto di portare il signor Barberino in pronto soccorso: «Ma tutti dicevano di evitare gli ospedali perché si rischiava di restare contagiati. E così noi, per far sì che non prendesse il virus, lo abbiamo tenuto a casa. Ma, in fondo, abbiamo seguito quello che ci è stato detto di fare».

Per più di una settimana, senza mascherine né protezioni, la figlia e la moglie di Saverio Barberino si sono presi cura di lui: «Abbiamo cercato di aiutarlo in tutti i modi, non solo con le medicine facendo anche impacchi. Ma la febbre non scendeva». Soltanto una settimana dopo i primi sintomi la situazione è precipitata. «Una mattina, il 18 marzo, la tosse è peggiorata. Aveva le labbra e le dita delle mani viola. Abbiamo chiamato il medico e lui ha contattato i soccorsi». L’ambulanza è arrivata e due soccorritori bardati con tute bianche sono entrati in casa: «Lo hanno portato via come un pacco» commenta Nunzia. Ma il commento non è un giudizio sull’operato dei volontari, quando la constatazione amara di un periodo tragico in cui anche le emozioni si sono fatte più sterili per difendersi dal virus.

«Ovviamente non siamo potuti andare con lui. Siamo quindi rimasti in contatto telefonico con il Sant’Anna. Subito dopo il suo arrivo ci hanno chiamati per dire che era vigile. Ma alla sera, verso le nove, è suonato ancora il telefono per comunicarci che si era aggravato. Il giorno dopo, al mattino, ci hanno detto che era stabile. Mio fratello ha chiesto se potevamo fargli sentire la nostra voce al telefono, ma non è stato possibile. Dopo poche ore non c’era più. Non ho potuto neppure salutarlo un’ultima volta».

Nella casa di Rebbio della famiglia Barberino, oltre al dolore per la morte del signor Saverio è entrata anche la preoccupazione per la paura di poter essere stati contagiati: «Io ho chiamato il numero della Regione, la Ats, il nostro medico che ha scritto una lettera all’Ats per far presente la nostra situazione. La risposta? “Se avete dei sintomi chiamate”. Ma io sono immunodepressa, mia mamma ha più di 70 anni ho detto. E loro: “State lontane le une dalle altre e indossate le mascherine. I tamponi? Potremmo farveli solo tra un mese”». Dolore e preoccupazione è facile che sfocino in rabbia: «E poi al telegiornale senti che i calciatori sono tutti monitorati, che a loro i tamponi li fanno». Nunzia Barberino ne è certa: sa di ingiustizia.

«Mio papà era una persona meravigliosa. Ci ha cresciuti insegnandoci che siamo tutti uguali, che nessuno è diverso e che l’onestà è la prima regola da seguire, che bisogna aiutarci a partire dai più deboli». La figlia del signor Saverio non tira le conclusioni, ma a parlare per lei è l’amarezza del tono della voce: è così che il sistema ricambia un uomo che ha lavorato per una vita intera? «Un uomo giusto, di principi e di ideali».

Ieri l’ex operaio della Sisme è stato accompagnato per il suo ultimo viaggio, al cimitero di Rebbio: «Io e mia mamma non abbiamo potuto esserci, visto che siamo in quarantena. C’erano solo mio fratello e mia cognata. Ma lo scriva, per favore: mio papà era una persona meravigliosa». E non un semplice numero di una fredda e cinica statistica, secondo cui muoiono “solo” le persone anziane. Perché quegli anziani uccise dal virus sono genitori, nonni, coniugi. Proprio come Saverio Barberino. Avrebbe compiuto 82 anni il prossimo 16 aprile.n 
Paolo Moretti

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