«Mio padre gianni, dai fumetti alla direzione de La Provincia»

L’intervista «Combatté per la Repubblica di Salò, poi iniziò a lavorare scrivendo le storie di “Buffaletto Bill” - ricorda Guido De Simoni - A Budapest nel ’56, inviato per “Gente”, lo credettero morto. Lo sentii piangere la notte in cui fu licenziato dal giornale che aveva diretto per vent’anni»

«Papà era originario della zona di Stradella, nel Pavese. Veniva da una famiglia molto grande. Pensi che suo padre si chiamava Primo perché era il primo di due gemelli nati rispettivamente come quindicesimo e sedicesimo fratello. Erano tutti contadini, anche se poi mio nonno Primo lavorò come bancario, un impiego che lo portò a spostarsi spesso passando anche per Erba, prima di installarsi nel Varesotto. Fu a Tradate che papà e mamma si conobbero. E fu a Tradate che si sposarono». Lei, «la ragazza più bella del paese», si chiamava Piera Martegani, benché tutti la conoscessero come Silvana, mentre lui di nome faceva Gianni De Simoni. Ancora oggi, a 35 anni dalla scomparsa, il suo nome evoca una delle epoche più luminose della storia de La Provincia, quotidiano diretto dal 1965 al 1984 per un quasi ventennio, secondo per longevità soltanto a Luigi Massuero, che dopo avere fondato il giornale nel 1892, ne mantenne la direzione fino al 1914.

Guido De Simoni è il figlio secondogenito di Silvana e di Gianni. Dal padre ha senz’altro ereditato sguardo e simpatia, l’uno e l’altra inconfondibili.

Suo padre era maestro elementare. Come divenne giornalista?

In realtà papà aveva due diplomi, uno da maestro elementare e uno da geometra. Non frequentò mai l’università. Credo comunque che il giornalismo rispondesse bene alla sua ambizione di comunicare, di farsi conoscere. Aveva combattuto con Dario Fo nell’esercito della Repubblica Sociale e gli piaceva ricordare di essere stato bersagliere, un po’ perché lo era stato Mussolini - e mio padre non nascose mai le sue simpatie di destra - e un po’ perché dei bersaglieri apprezzava lo spirito, il modo di vivere e di affrontare la vita di corsa. Ecco: diciamo che forse il giornalismo di quell’epoca rispondeva a questo suo spirito.

Il primo giornale?

Il primo impiego fu come redattore in un periodico di fumetti. Amava scrivere le storie di “Piccola Freccia” e “Buffaletto Bill”. Poi entrò nel gruppo dell’editore Edilio Rusconi e lavorò per Gente. Scrisse molto di spettacoli lavorando assieme a Lello Bersani. Mamma conservava parecchie fotografie di papà ritratto in quegli anni con Lea Massari, con la Lollobrigida, con la Bardot. Dalla nostra casa di Milano passarono anche De Sica e la Loren.

Poi gli anni da inviato.

Sì, anni di scrittura, di inchieste. Gli anni dell’amicizia con Oriana Fallaci, con Giuseppe Berto e delle interviste a Giovanni Guareschi. Corrado Pizzinelli, giornalista e inviato di guerra, ricordò in un suo libro di quando in Ungheria, nel ’56, volendo intervistare per strada la gente di Budapest, papà avvicinò e interrogò un uomo che si rivelò essere un funzionario del regime. Sparì nel nulla per parecchi giorni, tanto che mia madre, in Italia, si convinse di essere rimasta vedova.

E invece?

E invece, un po’ rocambolescamente, era riuscito a fuggire in taxi fino a Vienna da dove poi aveva fatto rientro in Italia in treno.

La passione per la politica?

Militò per anni nel Movimento sociale, ma poi lasciò perdere. Credo che dalla politica si fosse aspettato qualcosa di più. Da direttore de La Provincia partecipò spesso alle tribune politiche della Rai. In un’occasione ringraziò Andreotti per non avere escluso a priori la possibilità di coinvolgere la destra in un eventuale, futura maggioranza di governo. Era un bel provocatore. In televisione funzionava, anche se quella di allora era una televisione molto più composta di quella di oggi.

Poi Como.

Sì, nel 1964, chiamato da Verga e da Guido Vestuti prima come caporedattore poi, l’anno successivo, promosso direttore. Io ero un bambino, e a Como non ci volevo venire. Per convincermi mi dissero che la casa di Milano era bruciata. Ero affezionato a quella casa. Stavamo nella zona della fiera, dalle parti di Corso Vercelli. Ne ricordo ancora le luci quando uscivo a passeggio con mia madre.

Nuovo indirizzo?

Viale Varese, a tre civici dalla sede del giornale. Papà usciva a piedi e andava a lavorare. Aveva orari bizzarri.

Il suo ricordo di quella redazione?

La frequentavo spesso. Amavo l’odore del piombo. L’ufficio di mio padre era l’ultimo in fondo a un lungo corridoio. Ero “Guidino” per tutti; per i i linotipisti, per i redattori.

Scuole?

Ho frequentato le elementari in via Perti, poi le medie e il liceo al Collegio Gallio.

Di quella redazione si racconta che fosse sempre piena di questuanti in coda fuori dall’ufficio del direttore.

Nessuno di quelli che davvero avevano bisogno ne uscì mai a mani vuote. Ma in realtà quell’ufficio era frequentato anche da tanti politici, da tanti imprenditori, da tanti amici. Tra i più assidui ricordo Giampiero Maiocchi, Piergiorgio Cairoli, il direttore del Banco Lariano Antonio Romano, Giorgio Perlasca. Erano amicizie schiette, anche se poi quando si trattava di prendere una posizione, papà sapeva anche essere molto duro. Una sera un consigliere comunale del Pci disse che al direttore de La Provincia bisognava tagliare le mani.

Non si poteva dire che temesse le parole.

Direi proprio di no. Ricordo un articolo sul vibrione del colera a Napoli, nel quale ricorse all’espressione “teste di cozza”, abbastanza forte per quei tempi. O quando fu invitato al Gallio per parlare di Pasolini. Fece un lungo excursus concludendo che comunque Pasolini «era un pederasta, ed è bene che voi ragazzi lo sappiate». No, non aveva paura delle parole, anche se credo che in qualche caso vi riponesse una fiducia eccessiva.

Che padre è stato?

È stato sicuramente un padre assente. La passione sua era il lavoro, mentre quella di mia madre eravamo noi figli. Avevano due caratteri diversi, entrambi forti, passionali. Lei per esempio avrebbe voluto viaggiare, sognava di vedere Vienna, che invece non riuscì mai a visitare, lui invece aveva paura di volare. Ciò non toglie che per anni mia madre si sia alzata alle 4 del mattino all’ora in cui papà rientrava dal lavoro. Era il loro momento, l’occasione per bere un tè e chiacchierare mentre noi ragazzi dormivamo. In ogni caso davvero le priorità di papà erano altre. Anzi: credo che spesso si costruisse le occasioni per non esserci.

Per esempio?

Beh, le sottoscrizioni per il Friuli e per l’Irpinia gli presero parecchio tempo. Ma pochi sanno che per esempio fu direttamente coinvolto anche nella vicenda del sequestro Mazzotti.

E come?

I soldi del riscatto, i 150 milioni che la famiglia pagò per la liberazione di Cristina, che come noto non avvenne mai, passarono senz’altro da casa nostra. Papà era amico della famiglia Mazzotti dai tempi in cui aveva vissuto a Erba quando il nonno lavorava in banca, e anche se non credo che abbia mai avuto contatti diretti con i rapitori, senz’altro si prestò a fornire un aiuto, se non addirittura a mediare. Questo genere di situazioni diventavano per lui la priorità assoluta.

Il desiderio di aiutare fu sicuramente un tratto del suo carattere che orientò anche il suo modo di dirigere il giornale.

Credo che l’ambizione ad essere d’aiuto rispondesse anche al bisogno di essere riconosciuto, apprezzato. Papà non frequentava la chiesa ma ricordo un Natale in cui si presentò a messa portando una busta con del denaro, se non sbaglio addirittura 500mila lire. Quando si trattò di consegnarla mi chiese se non fosse stato il caso di scriverci sopra i nostri nomi. Gli domandai perché, che bisogno ci fosse… Ecco, in quel momento capii che a quel tipo di riconoscimento teneva moltissimo, anche se in realtà lo avrebbe avuto comunque, anche senza riportare nomi su nessuna busta.

È indubbio che De Simoni fece parecchio, non solo per Como.

Il suo desiderio di essere un po’ protagonista è innegabile, ma è vero che fece anche molta beneficenza “invisibile”. E comunque, per fare un esempio, a San Mango sul Calore, in Irpinia, la gente diceva che se non fosse stato per De Simoni, a vent’anni dal terremoto sarebbero stati tutti ancora nelle stesse catapecchie. E poi i lettori si fidavano di lui. Per anni a Natale ricevette la visita di un imprenditore che se non sbaglio arrivava da Lugano, uno che entrava nel suo ufficio e gli metteva in mano una busta con 150 milioni, certo che papà li avrebbe usati per fare del bene.

Ricorda qualcuno dei colleghi di quella redazione?

Ricordo tanti volti, ma in realtà pochi nomi, al di là di Alberto Longatti, che non fu mai amico di papà ma per il quale papà nutrì sempre un profondo rispetto, essendone ricambiato. Poi ricordo Licinia Civati, assistente fidatissima del direttore, e con lei i tanti linotipisti che passavano da casa nostra a portare ciascuno qualche regalo. C’era chi andava a caccia e allora si presentava con un fagiano, chi coltivava l’orto e arrivava con la verdura, quelli che amavano camminare e ci regalavano i funghi. Lasciare il giornale per lui fu molto doloroso.

Il licenziamento di suo padre fu un evento di cui in città si andò avanti a discutere per anni. Come avvenne?

Accadde di notte, molto rapidamente. L’allora presidente del consiglio di amministrazione, l’avvocato Roberto Manfredi, entrò nel suo ufficio e gli disse che il giornale non aveva più bisogno di lui. Tutto qui. Il mondo stava cambiando, l’editoria stava cambiando, passando nelle mani di una nuova generazione di editori che papà definiva “radical chic” e dei quali diceva che non sapevano quel che facevano. Quella notte sentii piangere e mi svegliai. Era lui, seduto in cucina con mia madre. Quell’allontanamento gli provocò un dolore immenso.

Poi però fondò subito la Gazzetta di Como.

Si, ma non andò bene. Investì parecchio, anche di tasca sua, ma il progetto morì in fretta. Gianni De Simoni era rimasto solo, circondato da troppi approfittatori che banchettarono sul suo cadavere. E si lasciò andare.

Cioè?

Rimaneva giorni chiuso in casa davanti al televisore, incapace di reagire. Si riprese un po’ quando potè avviare la sua nuova collaborazione con Espansione tv. Non era quello televisivo il mezzo che preferiva, ma in qualche modo potè ristabilire un contatto con i suoi lettori. Tenga conto che mio padre, nel 1979 era stato già ricoverato alle Betulle per una forte depressione. Credo che già all’epoca di quel primo ricovero avesse intuito che le cose nel mondo dei giornali stavano cambiando. E che prima o poi sarebbe toccato anche a lui.

In casa parlava del suo lavoro?

Direi quasi mai. Aveva ritmi sempre uguali. Al mattino riposava, nel primo pomeriggio andava in redazione, poi la sera rientrava per cenare e guardare il tg prima di tornare in ufficio fino alla chiusura. Diciamo che io ho scoperto papà quando ormai ero diventato grande.

Secondo lei perché fu tanto amato dai lettori e dai comaschi in genere?

Credo che tutti percepissero l’amore che a sua volta lui nutriva per la città. La notte, prima di mettersi a scrivere il suo “fondo”, usciva a passeggiare sul lungo lago, di cui adorava le luci nel buio perché diceva che gli ricordavano un presepe. E poi aveva questa straordinaria capacità di stabilire un filo diretto con i lettori, al punto da diventare per molti di loro un vero e proprio punto di riferimento. Era un uomo simpatico, affascinante, anche se non è così vero che lo amassero proprio tutti. Dopo la sua morte trovammo anche lettere zeppe di invettive di gente che brindava al suo licenziamento: «Finalmente ti hanno cacciato».

Lei ha lasciato Como da tanti anni. Come mai non è più tornato?

Mi ha sempre mosso un desiderio di andare, di partire, fin da subito dopo il liceo, quando molti dei miei compagni mi guardavano stupiti dal fatto che ambissi a tornare a Milano, come se poi fosse un posto così distante. Di tanto in tanto ho frequentato Como fino alla morte di mia madre, venuta a mancare nel 2015 dopo vent’anni di ricovero in Ca’ d’Industria, a Rebbio, per le conseguenze di un ictus. Mio fratello Giorgio, invece, morì improvvisamente per un attacco di cuore nel marzo del 1998, a 49 anni. Era disegnatore alla Ratti. Io ho viaggiato molto nella vita, ma ricordo un particolare della mia prima volta negli Stati Uniti, proprio nel 1990, l’anno successivo alla scomparsa di mio padre. Al tempo lavoravo per la Ibm, in Texas, e ricordo di essermi trovato al volante mentre la radio trasmetteva musica country. Pensai a lui, a papà, che aveva sempre coltivato il mito di John Wayne, il mito della frontiera americana, del Rio Bravo e di quei luoghi in cui mi trovavo in quel momento senza che lui potesse saperlo. Mi commossi, e capii che finalmente potevo fermarmi.

A giugno saranno 35 anni che suo padre è scomparso.

L’altro giorno mia figlia, che è nata quando è mancata mia madre, nel 2015, mi ha chiesto: papà, ma chi era mio nonno? Le ho mostrato la foto che c’è sulla copertina di “Fogli d’appunti”, il volume che l’associazione Comocuore dedicò agli scritti di papà. Le ho detto: eccolo tuo nonno Gianni. E ho ripensato a un post pubblicato su Facebook nel 2019 nel trentennale della sua scomparsa. In quella occasione avevo scritto che questo era stato mio padre: un bersagliere e un uomo schietto, che non mancò mai di scrivere quello che pensava.

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