’Ndrangheta, l’omertà in dialetto lombardo: «A papà hanno puntato la pistola, ma non ha denunciato»

Il retroscena Nel processo contro i presunti affiliati al clan, spunta l’intercettazione choc. La madre al figlio titolare di un’impresa comasca: “Ta ghe no pagura che ta dan una gibulada?”

“Ta ghe no pagura che ta dan una gibulada?”. Il dialetto non tradisce. Chi parla è una donna, lombarda doc. Madre di un imprenditore attivo nel campo del riciclo dei rifiuti, amministratore di una società con sede legale a Como. Che due giorni dopo la decisione del figlio di andare a denunciare le minacce ricevute dalla ’ndrangheta, chiama spaventata: “Non hai paura che ti daranno qualche testata? A te o ai tuoi figli?”. E rivela: “Papà una volta quando gli hanno puntato la pistola, forse non lo sai, ma lui per voi è stato zitto”.

L’intercettazione telefonica, una sorta di manifesto dell’omertà in salsa lombarda, è stata depositata ieri mattina durante il processo a carico di alcuni presunti affiliati alle locali comasche di ’ndrangheta, in corso in Tribunale a Como.

“Papà una volta quando gli hanno puntato la pistola, forse non lo sai, ma lui per voi è stato zitto”

La vicenda riguarda la denuncia che, al culmine di una serie di minacce ricevute, l’imprenditore ha deciso di formalizzare contro Massimiliano Ficarra e parenti, tutti presunti affiliati alla mafia calabrese, legati a una serie di cooperative - tutte fallite - che erogavano servizi per le imprese. Tra i clienti anche la società attiva nel mondo dei rifiuti con sede a Como. I Ficarra avrebbero iniziato a pretendere soldi dall’imprenditore, con questa spiegazione: siccome l’appalto di servizio con la loro cooperativa era stato cancellato, a loro era dovuto il corrispettivo del guadagno perso. «Daniele Ficarra - questo il racconto della vittima - giustificava le sue richieste dicendo che a chiederlo era stato il fratello Massimiliano, che si trovava in prigione. Avevo paura». Per almeno un paio di anni pressioni e minacce hanno reso la vita dell’imprenditore un vero e proprio inferno. Fino a quando non ha deciso di presentarsi agli investigatori e denunciare. Ma solo quando ormai la misura era colma.

La telefonata

Pochi giorni dopo, la Procura antimafia ha deciso di mettere sotto controllo il telefono dell’imprenditore. Per verificare eventuali minacce provenienti da personaggi dei clan. E intercettando la chiamata della madre. La quale ha rivelato come non era la prima volta che l’azienda di famiglia subiva pressioni e minacce. Il padre, anni prima, si sarebbe trovato una pistola alla tempia: “Ma lui per voi è stato zitto”.

Così come zitti, per anni, sono stati anche altri due imprenditori che ieri hanno raccontato - tra le lacrime - le minacce ricevute dai Ficarra: «Potremmo scrivere un libro sulle minacce ricevute. Il peggiore incubo della mia vita». Un incubo iniziato con quello che sembrava un affare, la compravendita di un orologio, diventato l’esca per soggiogarlo. Chiedere continuamente soldi. «Minacce di tutti i tipi: “Ti uccido, ti do in pasto ai maiali, ti sciolgo nell’acido, ammazzo la tua famiglia…”». Durante la propria testimonianza, uno dei due imprenditori è scoppiato in lacrime quando ha ricordato che per colpa di quelle minacce il suo matrimonio è finito: «L’abbandono della mia famiglia è stata la parte più grossa, ero il punto di riferimento per la mia famiglia, ma dopo quello che è successo hanno cominciato a non fidarsi più di me».

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