Renato e il gol più bello: il ritorno dal lager

La storia Il calciatore del Como Cattaneo fu tra i tanti campioni deportati nel ’43. Dopo il rimpatrio giocò in serie A

Il gol suo più bello fu il ritorno a casa. La fuga (sulla destra...) più entusiasmante, quella dal lager, seminando come birilli paure e angosce. Se una partita di calcio, come si dice, è una metafora della vita, beh in quella di Renato Cattaneo le due cose si fondono e si intrecciano. Con la vicenda umana che forse vince su quella sportiva. O forse no. Perché fare paragoni è stupido.

La presenza di Cattaneo tra le figure raccontate dalla mostra in Biblioteca dedicata ai campioni deportati nella Seconda Guerra Mondiale, è la ragione per cui questo allestimento è presente ora a Como, in biblioteca. Da sabato scorso (giorno della Memoria) al 24 febbraio. Una mostra organizzata dall’Unione Nazionale Veterani dello Sport di Firenze, ma con la co-organizzazione della Associazione “Schiavi di Hitler”. Che ha un vasto archivio di video interviste di deportati e poi fuggiti all’orrore. “Schiavi di Hitler”, già, perché il tema è anche quello del reclutamento in Europa, e in Italia, di persone che potessero prestare mano d’opera in Germania, mandare avanti fabbriche e aziende, giacché gli uomini giovani e forti tedeschi erano nell’esercito. Mano d’opera gratuita. Forse anche uno dei segreti della rifioritura industriale germanica del dopo guerra.

Renato Cattaneo, di Rovellasca, classe 1923 (è scomparso nel 2017) fu tra questi. Già giocava nel Como, in serie C , quando nel 1943 (dopo l’8 settembre) fu mandato militare, inquadrato nella Rsi. In Piemonte, prima a Casale Monferrato poi a Mondovì, in Aviazione. Una situazione caotica, con i militari che erano sotto tiro dei partigiani. Così, in compagnia di un commilitone sergente decisero di andarsene e raggiungere i partigiani locali, ma dopo appena tre giorni in cui capì che le missioni non facevano per lui, decise, sempre assieme all’amico, di provare a tornare verso casa. Cominciando un viaggio a piedi, tra i campi, verso la Lombardia. Chiesero un passaggio a un camioncino che trasportava vini verso Novara. Ma pochi chilometri dopo, ci fu una retata. Era normale: chiunque fosse in giro liberamente, in età attiva, non nell’esercito, senza motivazioni o compiti assegnati, poteva rimpinguare le forze lavoro da mandare in Germania. Prima in prigione a Casale, poi a Torino in un campo di smistamento. La fortuna fu che non venne aperta una indagine su di lui: come disertore poteva essere fucilato. Cattaneo fu messo su un treno, uno dei tristemente noti vagoni piombati, in 40 per vagone, una miseria da mangiare, in viaggio per chissà dove. Quando scese dal treno, era a Mauthausen, uno dei tristemente famosi campi di sterminio. Fosse rimasto lì, probabilmente non sarebbe tornato mai a casa. Invece, poco tempo dopo cercarono un disegnatore meccanico e lui si fece avanti: fu trasferito a Kirche Mosel, in un altro lager, dedicato solo alle forze lavoro. Lì non si rischiava forse la camera a gas, ma era una vita dura, dove la fame la faceva da padrone, impiegato in una fabbrica di carri armati. Fu preso per via degli studi che aveva fatto, ma le condizioni di vita erano quelle che erano: «Vidi con i miei occhi persone morire sotto la doccia, perché stremate dalla fame -racconta nell’intervista video -: ci davano solo del pane nero e della verdura. C’è chi si azzardava ad andare a rubare delle patate nei campi, ma lo faceva a suo rischio e pericolo. Rischiava la fucilazione».

Poi, un bel giorno ci fu la liberazione. Nel senso che si svegliarono e non trovarono più nessuno dei carcerieri e di chi comandava il campo. E così, cominciò un avventuroso viaggio di ritorno. Prima ci fu l’esigenza di attraversare il fiume Elba, perché nella sponda di qua c’erano i russi, che saranno stati anche parte attiva della vittoria alleata, ma per gli italiani rimasti in zona rappresentavano una incognita. Si preferiva andare in mano americana, che era di là dal fiume. E così fu, con sigarette e e cioccolata per tutti. Ma poi Cattaneo, e quelli che erano con lui, passarono sotto controllo inglese «e fu quasi come essere di nuovo sotto i tedeschi». Era il periodo di sfide tra squadre nazionali di calcio sorte spontaneamente, di amatori. Lui fu il capitano dell’Italia e veniva portato in trionfo dopo le partite, essendo calciatore per davvero.

Alla fine, dopo un lungo viaggio, entrato in Italia da Bolzano, l’arrivo a Rovellasca in treno, e l’incontro casuale con la mamma, che ogni giorno andava alla stazione a vedere se per caso sarebbe sbucato il suo amato Renato.

Da lì cominciò la sua seconda carriera da giocatore. Quella vera. E, per certi versi, casuale. Perché Cattaneo, a tornare a giocare proprio non ci pensava: «Pensavo a come vivere, a cercare un lavoro». Finì in una azienda tessile. Ma un giorno, un dirigente del Como che aveva controllato gli elenchi degli anni prima, lo contattò per reinserirlo nei quadri tecnici. «Chiesi al mio datore di lavoro di poter essere assente il giovedì per gli allenamenti». Debuttò con il Mantova e segnò tre gol. La sua seconda carriera era cominciata. E poi, dopo aver giocato nella Cremonese, nel Vicenza, nella Lucchese, tornò al Como, questa volta in serie A, dove giocò due stagioni. Il primo anno, il 1951-52, in quel fantastico Como che fu anche primo in classifica, e che il pubblico accoglieva con il coro Italia-Italia perché privo di stranieri. Il secondo anno la squadra retrocesse e lui passò a Catania dove centrò una promozione in serie A.

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