Tamponi, Como
è stata dimenticata

L’Ats Insubria fanalino di coda in Lombardia per la ricerca di pazienti positivi. Il 22 marzo solo un comasco su 50 era stato sottoposto a controlli, appena un terzo della percentuale regionale

Mentre in Lombardia si attendevano i sintomi da Covid per fare il tampone, in Veneto - sicuramente una regione che ha fatto scuola sul fronte della prevenzione al virus - i tamponi si facevano soprattutto agli asintomatici. Questione di strategia, aveva spiegato a suo tempo Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova, l’esperto che ha fatto prendere alla sua regione la strada giusta: «In altre regione - aveva detto - si pensa che il tampone serva solo a fare la diagnosi, ma se una persona sta male da giorni con tutta la sintomatologia e il quadro radiologico, il tampone non c’è nemmeno bisogno di farlo. Dovrebbe invece essere fatto alle persone con cui il malato è stato in contatto».

Fatta la premessa (indispensabile per capire di cosa stiamo parlando), veniamo ai numeri. La Lombardia ad oggi ha fatto (in percentuale sulla popolazione) poco più della metà dei tamponi del Veneto, ma nella fase critica, a metà aprile, aveva fatto meno della metà dei tamponi veneti. In quegli stessi giorni nella provincia di Como i tamponi fatti erano due terzi in meno del dato - già deficitario - del resto della Lombardia.

Parliamo di numeri, certo, ma dietro i numeri si nasconde una realtà sconsolante. E che, in parte, spiega anche come mai Como e Varese sono rimaste a lungo tempo le province meno contagiate della regione: perché nel territorio di competenza dell’Ats Insubria, molto banalmente, il Covid non veniva cercato. Nonostante gli ospedali fossero letteralmente presi d’assalto. E le persone morissero anche qui.

Dall’inizio dell’emergenza a domenica scorsa 23 comaschi su mille erano stati sottoposti a screening per la ricerca del virus, contro una media regionale di 36 lombardi (tradotto parliamo di un 55% in più). Già questo numero da solo racconta tanto su quanto non sia stato fatto sul nostro territorio in termini di prevenzione. Ma se guardiamo alla progressione settimana dopo settimana dei test, il dato è ancora più drammatico. Perché la nostra provincia ha recuperato terreno sul resto della Regione - per così dire - a partire da metà aprile, quando ormai il disastro era bello che compiuto.

Il primo contagiato comasco risale al 29 febbraio scorso. A quel tempo in provincia erano stati testati 14 comaschi su centomila. Niente, di fatto. Alle porte di marzo la media regionale era sette volte più alta di quella comasca. Qualche esempio: a Bergamo (ancora non travolta dal Covid) i tamponi erano stati fatti a 54 persone (sempre su 100mila), a Cremona su 183 e a Lodi (teatro del primo focolaio) 401.

Anziché testare le persone passate dal Lodigiano, a Como si è atteso che i pazienti iniziassero ad avere i sintomi del virus. E così il 15 marzo solo 12 comaschi su 10mila vengono testati, contro una media regionale di 45 (più di quattro volte tanto). Anche nella vicina provincia di Lecco i tamponi, a quella data, sono il doppio che quelli comaschi. E pure Sondrio, dove i positivi a quella data sono un quarto di quelli lariani, ha un numero di tamponi superiore al nostro. E la settimana successiva, quella in cui ormai la Lombardia era l’area più contagiata del globo, in quel momento, solo il 2,3% dei comaschi era stato sottoposto ai controlli, un terzo rispetto alla percentuale lombarda.

Peggio dei dati comaschi c’è soltanto la provincia di Monza e Brianza e la provincia di Varese. Como e Varese messa assieme, ovvero i due territori che sono sotto l’Ats Insubria, sono in assoluto quelli dove sono stati fatti di gran lunga meno test del resto della Lombardia.

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