Art Déco, cifra stilistica della modernità

Milano A Palazzo Reale la mostra di arti decorative italiane ed europee: vetri, porcellane, tessuti e molto altro. Un omaggio per il centenario de l’Exposition internationale di Parigi che segnò l’affermazione dello “Stile 1925”

Chi è passato per Milano nella Settimana del Mobile o Design Week (8-13 aprile) anche senza l’intenzione di frequentare i “Fuori Salone”, si sarà certamente imbattuto in folle di visitatori che dalla mattina di buon’ ora si erano diligentemente messi in fila per dare un’occhiata alle novità. Un vero e proprio rito di massa (le cifre sulle presenze sono ancora da confermare) che dura da alcuni anni.

Se strabilianti erano le code, cosa del tutto insolita era la scomparsa di quelle che ormai da alcuni decenni siamo soliti vedere davanti a Palazzo Reale, a Milano. Per la mostra “Art Déco” l’attesa in quei giorni era quasi nulla anche se all’interno delle sale vi era comunque un discreto pubblico, eterogeneo quanto a età e a status, da quello scolastico e delle associazioni, a quello individuale.

Le sale

Ma anche questa esposizione rende un suo specifico omaggio al Design: nell’anticamera di accesso un’installazione dal forte impatto visivo e sonoro accoglie il visitatore con una musica travolgente, quella degli Anni Venti e Trenta (brani di jazz sostanzialmente), accompagnata da immagini che scorrono velocissime sul dirigibile fluttuante nel cielo di New York.

Si entra poi nella prima Sezione della mostra che presenta con una bella selezione di opere gli antefatti della storia che si vuole raccontare. Nelle sale del palazzo, in parte ricoperte da pannelli di un azzurro intenso (salvo una di un verde tenero ed un’altra, molto elegante, di un rosa antico), si snoda il percorso espositivo (XIV sezioni), ricco, ma non ridondante: dai dipinti e sculture (non molti), alle stoffe, agli abiti, ai vetri, alle vetrate, ai mobili, alle oreficerie e ad altro ancora. In tutto circa duecentocinquanta pezzi.

Una passerella di oggetti, dai materiali più vari e più moderni (per allora), come la bachelite, l’alluminio, il vetro satinato, la plastica. Senza dimenticare quelli più tradizionali, quali onice, giada, agata, per citare solo i più preziosi. Una gamma straordinaria che ben qualifica l’Art Déco, quel movimento internazionale che come suggerisce il nome, “Arts décoratifs”, si sviluppa soprattutto nel campo delle arti applicate. Il modello francese è ineludibile tanto che questo stile viene denominato anche “Stile 1925”, con riferimento all’ “Exposition des arts décoratifs et industriels modernes” che si tenne a Parigi in quell’anno e che ne consacrò lo straordinario successo.

Cambiamento

Ma come ben dimostra l’esposizione curata da Valerio Terraroli, studioso di riferimento per questo periodo, è con la prima Biennale di Monza (1923) che si riconoscono i primi segni di un cambiamento di linguaggio. In particolare nella produzione dei vetri e delle ceramiche di cui in mostra sono presentati esemplari di altissima qualità e che nel catalogo vengono restituite con grande pregio grafico. Due soli nomi, Vittorio Zecchin e Gio Ponti.

A partire da queste suppellettili tutte dedicate ad un pubblico elitario e sofisticato, il repertorio delle forme viene continuamente adattato, di volta in volta, agli usi più disparati, dagli arredi di abitazioni e di edifici pubblici, alle scenografie teatrali e cinematografiche, alla moda, all’architettura. Un gusto pervasivo che si ritrova anche nell’architettura, da quella più spettacolare come il grattacielo “Chrysler” a New York (1928-1930) a quella più modesta, meno sperimentale, prettamente decorativa, di cui si hanno molti esempi in tutte le città europee, Milano in primis. Ed in mostra un pannello ne elenca i casi più interessanti. Forse si può parlare di una tendenza, di una moda durata solo l’arco di un decennio –quello drammatico del primo dopoguerra- affermatasi in Europa e poi diffusasi, con altri accenti, negli Stati Uniti.

Può sembrare contradditorio il modo eclettico, non certo rivoluzionario del gusto Déco con le grandi trasformazioni industriali che nello stesso arco di anni si erano andate sviluppando. Ma il fatto è che il gusto Déco non mira ad un cambiamento radicale, non mette in crisi il concetto di arte e di modernità, come invece fu proprio di altri movimenti, come il Futurismo. Vive di suggestioni, di rievocazioni, di citazioni ricreate in forme morbide, allungate, facilmente riconoscibili, straordinariamente seducenti. L’“Art Nouveau” (“Arte nuova”), movimento di poco precedente, aveva il medesimo scopo di realizzare un’arte “totale”, ma non destinata ad una committenza elitaria, ma al contrario pensata per un pubblico di massa, come del resto in Germania il movimento del “Bauhaus” (1919) si poneva l’obiettivo di fondare una nuova estetica dell’abitare per tutti.

Ed è con questo pensiero che si guardano gli spezzoni di film che arricchiscono le sale della mostra. Un’idea eccellente. Le immagini che scorrono se forse fanno sorridere, inquietano anche, rivelando un vuoto esistenziale, una mancanza di utopia. E la figura femminile, tanto osannata, ne esce profondamente svilita. Tutti temi su cui riflettere.

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