Per l’Italia è l’anno zero (nomination)
Ma i passati trionfi rivivono con Mollica

Meno di dieci volte non ci sono state nomination di italiani nella storia dei premi Oscar. Dunque l’edizione che si è conclusa domenica può rientrare in un ordine fisiologico, anche se non si possono sopprimere certe nostalgie: agli Oscar del 1991, oltre al premio alla carriera a Sophia Loren, si contarono nove nomination di italiani (salvo errore un primato), tra cui, vincitrice, Francesca Squarciapino (per i costumi di “Cyrano de Bergerac”, la statuina che ci è fisicamente più prossima, a Eupilio dove vivono la costumista e il marito, l’erbese Ezio Frigerio “nominato” per la scenografia di quello stesso film).

Il più recente regesto in proposito - “L’Italia agli Oscar”, Edizioni Sabinae, 215 pagine, 28 euro - lo ha scritto Vincenzo Mollica, proponendolo come «racconto di un cronista» che a Hollywood è stato assiduo e che non risparmia toni apologetici per la partecipazione tricolore al massimo premio - checché si dica - del cinema.

Sarà anche perché la sua prima volta agli Oscar coincise con l’affermazione di “Nuovo cinema Paradiso” e il premio «può cambiare il destino di un film» e della «persona che entra in possesso della mitica statuetta», Giuseppe Tornatore nel caso.

Da cronista, però, Mollica spia dietro le quinte degli Oscar: scopre l’emozione dell’arrivo delle limousine e si apposta: dalla vettura «scendevano nell’ordine alcune lattine di birra, due ragazzone bellissime e rutilanti e infine lui, Jack» Nicholson, così come registra la presentazione ai giornalisti delle buste, «come sono fatte, qual è quella del vincitore», le borse con cui vengono trasferite, manette al polso di chi le trasporta, particolari di un’organizzazione ferrea, tempi cronometrati: «Ad esempio, tutti i nominati vanno un giorno prima a provare quello che sarà il loro discorso sapendo che avranno a disposizione 50 secondi». Ha la fortuna, uscito per una telefonata di vedere arrivare Clint Eastwood, solo, alla guida di un furgoncino (alla festa per Ennio Morricone), infierisce sui “press agent” del cinema, celebra tutte le nostre glorie, ma è Federico Fellini ad occupare le pagine più vive del cronista Mollica.

Specie per quell’Oscar alla carriera, anno 1993, «ricevuto dopo quattro premi vinti sul campo e soprattutto poco prima di morire». A Los Angeles un cinema aveva in cartellone “8 1/2” appena restaurato, «avevano aperto un ristorante che si chiamava “La dolce vita”, negli alberghi c’era il menu “Amarcord”». Insomma, «chiunque capiva che Federico era un mito, anzi era il vero mito». n 
Bernardino Marinoni

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