Quando l’altare
è un capolavoro
L’impronta di Rui
a Cucciago

Tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, il prevosto di Cucciago don Luciano Brambilla trasformò la chiesa parrocchiale dei Santi Gervaso e Protaso in un laboratorio artistico e artigianale, circondandosi di maestri d’arte di cui desiderò essere non solo il committente ma anche l’ispiratore. Inevitabilmente, all’area presbiteriale dedicò il maggiore impegno, riuscendo a realizzarla nonostante i ripetuti ripensamenti. Ai fratelli Giovanni ed Eugenio Rossi affidò il fondale del presbiterio con quattro colonne istoriate che riprendevano l’idea delle antiche iconostasi paleocristiane. Nel frattempo maturava in lui la convinzione di posizionare l’altare al centro del presbiterio, rivolto ai fedeli «per far partecipare – scrisse in una memoria più tarda – la popolazione al Sacrificio della Messa».

Mentre il pittore Giuseppe Ravanelli completava il ciclo decorativo e le vetrate dell’abside, nel 1952 il Prevosto sottoponeva l’idea del nuovo altare al cardinal Schuster dal quale ricevette una velata disponibilità.

Dalla seconda metà del XVI secolo le norme del Concilio di Trento avevano imposto il tabernacolo sull’altare maggiore, in posizione dominante che le prescrizioni di san Carlo contribuirono a diffondere: l’uso dell’altare non doveva più essere rivolto verso i fedeli, com’era avvenuto sin dall’antichità, ma appoggiato alla parete di fondo.

Il tabernacolo fisso divenne sempre più monumentale, fino a invadere buona parte della mensa, sormontato com’era da pesanti strutture architettoniche. Una disposizione che, salvo episodi isolati, si mantenne sostanzialmente inalterata sino al Concilio Vaticano II.

Luciano Brambilla si accinse a riorganizzare il presbiterio nel momento in cui le disposizioni del Concilio erano ancora lontane, sebbene l’idea della mensa dell’altare “staccata dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il Popolo”, fosse già oggetto di discussione. Le aperture in questo senso di Pio XII e di Schuster convinsero il prevosto di Cucciago a persistere nella sua scelta, per la cui attuazione si affidò allo scultore e ceramista friulano Romano Rui, che realizzò nel 1956.

Rui ideò il grande volume monolitico della mensa in ceramica vetrificata raffigurando gli apostoli intorno a Cristo, in un intreccio di linee e contorni incisi con grande forza espressiva nella materia grezza: un grande risultato.

Dopo molti ripensamenti, alcuni anni più tardi Luciano Brambilla decise di sostituire la pur recente opera dei fratelli Rossi con la proposta di Romano Rui, più consona al volume della mensa: una quinta monolitica realizzata con la luminosa pietra di Vicenza, incisa su tutta la superficie da un fitto intreccio di segni che sviluppano un racconto ininterrotto, sulla quale per contrasto si sarebbe stagliato il volume della mensa. «La tenerezza della pietra di Vicenza e la sua stessa vibrazione luministica sulle sfaldature – ha osservato il critico d’arte Dino Formaggio – invitano al pieno movimento delle masse ed alla ruvidezza genuina delle superfici, scopertamente segnate dal vigore delle punte e degli scalpelli». Una mensola di forte spessore taglia orizzontalmente la quinta marmorea, al cui centro è incastonato il tabernacolo.

Lavorando alacremente, Rui completò l’opera in meno di due mesi e già nell’agosto del 1960 informava il presule dell’avanzato stato dei lavori. Con la posa della grande quinta marmorea l’altare di Romano Rui, forse il suo capolavoro, giungeva a compimento.

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