Così il Covid è entrato in ospedale a Como: «Una telefonata e ci siamo trovati
nella tempesta»

Pronto soccorso Il primo paziente Covid al Sant’Anna: «Quanta sofferenza, ma siamo riusciti a fare squadra»

A volte l’inizio di uno tsunami ha il suono banale e quotidiano di un telefono che squilla. «Stavo parlando fuori dall’area triage con il direttore del pronto soccorso, Roberto Pusinelli. Quando è arrivata la chiamata». Manuela Soncin era la coordinatrice degli infermieri del pronto soccorso, quando il 22 febbraio 2020 è iniziato tutto. «Ci preallertatavano dell’arrivo al Sant’Anna del primo paziente Covid. Non ce lo aspettavamo». Da lì a un paio di giorni, l’inatteso si è fatto quotidianità.

È iniziato così

Sono passati tre anni. Ma quei giorni di fine inverno del 2020 sono cuciti a doppio filo nei ricordi di chi lavorava al pronto soccorso del Sant’Anna. Come Francesca Pellegrini, infermiera: «Una doccia fredda. Questo è quello che ricordo del primo paziente Covid arrivato in pronto. Perché tutto quello che si sentiva sui media, le voci di questo virus cinese, all’improvviso si era fanno vicinissimo e reale. È stato sconvolgente».

Prime avvisaglie c’erano state già a novembre: «È arrivata una famiglia cinese, di ritorno da casa, e avevano tutti la febbre mamma, papà e i bambini - ricorda Christian Zambuto, giovane infermiere del pronto soccorso - Ci siamo bardati tutti per la prima volta, abbiamo fatto il primissimo tampone che è risultato negativo. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo». Ma è durato una manciata di mesi.

«Mi ricordo queste settimane di grandi corse - prosegue Manuela Soncin - I pazienti sembravano non finire mai, c’era la coda di ambulanze fuori dal pronto soccorso. Ed erano tutti pazienti che si capiva che erano gravi, con problemi respiratori importati. Ricordo gli sguardi, il pronto pieno di barelle, l’attaccamento del personale, l’affiatamento. Se chiudo gli occhi ricordo questi ossigeni ad alti flussi, rumori che mi ritornano in mente ancora oggi... era assordante».

All’improvviso l’ospedale si era popolato di astronauti. Ogni operatore, dagli addetti alle sanificazioni ai primari indossava tute, calzari, doppi guanti, maschere, occhiali, mascherine: «Nonostante i turni massacranti, le sudate dentro quegli scafandri, ricordo tanta solidarietà e tanto conforto e coraggio tra di noi» sottolinea Francesca Pellegrini. Una degli “astronauti”. I pazienti, dei loro soccorritori, ricorderanno per sempre soltanto gli occhi: «Abbiamo dovuto imparare nuovi modi per comunicare con loro - riannoda il filo dei ricordi Gabriella Marchesini, Oss del pronto soccorso - Ricordo la paura negli sguardi dei pazienti. Tutti chiedevano la stessa cosa: “Ma sono grave? Me la caverò?”. Cercavano una parola, una stretta di mano, un contatto».

Le lacrime della vigilessa

E mentre oltre quelle porte era tutto correre, affannarsi, sibili e gorgoglii delle maschere d’ossigeno, fuori il deserto: «Era incredibile. Uscivi e subito veniva travolto dal silenzio delle strade. Una sera, a Carimate, mi ferma una vigilessa anche con fare aggressivo: “Dove sta andando” mi chiede. Le dico che stavo andando a prendere mio figlio, che avevo appena staccato il lavoro al pronto soccorso. Lei mi guarda e all’improvviso scoppia a piangere. Suo fratello era uno degli autisti dei camion che, a Bergamo, portavano via le bare delle vittime del Covid».

E pensare che tutto è iniziato con una semplice telefonata.

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