I sorrisi sulla collina dell’ultimo saluto, dove la fine della vita si riveste di dignità

Reportage Viaggio nell’hospice San Martino, dove il verbo accompagnare assume tutto un altro significato

C’è un angolo di Como che domina la città, a metà strada tra la convalle e Brunate. Sulla collina di San Martino, inserita nel contesto dell’ex ospedale psichiatrico, ma isolata, c’è l’hospice. Un bel giardino, un piccolo gazebo con un tavolino, introducono a una struttura che convive, da sempre, con un grande pregiudizio: c’è chi pensa che sia un luogo dove si va a morire prima.

Che fatica, spiegare che non è così. L’hospice è un luogo che punta alla dignità del fine vita, in cui il paziente può ricevere un’assistenza particolare, in cui il valore dell’ultima fase del percorso terreno diventa preponderante. Un luogo che, ancora oggi – perché la morte è ancora vista come un tabù e perché ci sono ancora molti ostacoli mentali su queste strutture preziosissime per chi è vicino al momento dell’addio – non riesce ancora a essere considerato un luogo in cui la vita, il fine vita, rappresenta una tappa della vita stessa. Da vivere come meglio è possibile.

L’hospice convive con pregiudizi decennali. «Lì si va a morire», è l’opinione più diffusa. Chi opera in quel contesto, cerca di sradicare questa convinzione insita nella cultura europea e occidentale. Le cure palliative che vengono offerte non sono un modo – anche in questo caso, una convinzione errata – per “andarsene prima”, ma rappresentano semplicemente la modalità più dolce per cercare di eliminare i sintomi del dolore. E c’è una grande differenza. Con l’obiettivo di dare importanza alla condivisione del percorso con la famiglia: la “battaglia” di questi tempi è far capire che la cura palliativa non è eutanasia, ma dignità di fine vita, svolta da professionisti di livello. E che non c’è nulla di pietistico nel ricorso a questi interventi palliativi.

L’hospice è questo e altro. È un angolo di dignità, in cui medici, operatori sanitari, psicologi e volontari cercano – quando è possibile – di creare un percorso e di assicurare un ultimo tratto improntato al benessere, compatibilmente con la malattia delle persone. Tutti sanno che non si esce dall’hospice rinati. Ma c’è modo e modo per affrontare il proprio destino e vivere gli ultimi giorni, o mesi, nel modo migliore possibile.

Le testimonianze

Il discorso riguarda i pazienti, ma anche le famiglie. Che vengono accompagnate, faticosamente, in questo percorso. La struttura dell’Hospice, gestita attualmente dal Gruppo Paxme, è nata nel 2004 per accogliere principalmente i malati terminali di Aids, in un’epoca in cui i pazienti non erano ancora curabili. Oggi accoglie dieci ospiti in fase avanzata della malattia (in gran parte oncologici, ma non solo), che non possono trarre beneficio dalle terapie e che non possono essere curati a domicilio. L’approccio è globale, ci si fa carico del paziente nella sua totalità, senza trascurare gli aspetti sociali, psicologici e spirituali della persona. L’assistenza medica e infermieristica è garantita 24 ore su 24 ed è disponibile uno psicologo per gli ospiti e i familiari.

Le testimonianze sono tante. Scrive Anna: «…ci avete insegnato a dare un nuovo significato al verbo “accompagnare”. Non solo stare vicino ad una persona, ma è un accudire e prendersi cura in ogni momento…». E ancora: «…abbiamo notato la specificità dei vostri interventi curativi, gestiti con equilibrio e gentilezza, proprio stando accanto, senza “spingere” e senza “trattenere”».

Fondamentale è l’apporto dei volontari, formati da Accanto: un “esercito” arancione di angeli custodi che sostengono pazienti e famiglie con parole di conforto, affetto, ma che sono anche in prima linea per trascorrere le giornate – con chi riesce – svolgendo attività. Interagiscono con l’équipe, riferiscono ciò che vedono, portano suggerimenti. Ma soprattutto, parlano.

Il valore delle parole

Parlano ai parenti, parlano agli ospiti. Parole che sono di grande conforto. C’è anche un’assistenza spirituale, per chi la desidera, grazie alla presenza di un sacerdote, don Felice Cantoni. E c’è attenzione, in una società multirazziale e multireligiosa, anche alle diverse culture. Arrivano all’hospice casi disperati. Persone senza famiglia, anche in stato di avanzata ed evidente difficoltà. Non si fanno preferenze, tutti sono ospiti che vengono presi in carico. L’obiettivo? Tornare a riaprirsi alla città dopo la pandemia, che ha bloccato tante iniziative e occasioni di incontro.

Il supporto di Accanto è fondamentale, oltre che per la formazione dei volontari, anche per i microprogetti in cui è impegnata per fornire anche adeguati supporti all’hospice: letti, televisori e quanto possa servire all’interno della struttura. Accanto all’hospice, c’è il servizio di assistenza domiciliare, che si rivolge alle persone con malattie cronico-degenerative (di natura oncologica e non) non guaribili, mediante l’intervento di un’équipe di professionisti in grado di rispondere ai loro problemi clinici, assistenziali, psicologici e sociali. Un’attività che si estende fino all’alto lago. E che, nei limiti del possibile, è “preferita” rispetto al ricovero in struttura – è meno traumatica per il paziente -, ma anche molto più complicata, perché presuppone il coinvolgimento in prima persona dei famigliari.

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