Il dottor Sándor Lukács di Rebbio e il suo personaggio, Moishele «Parlerò con Dio»

Il personaggio Ungherese trapiantato a Como. Nel suo ultimo libro postumo, la tragedia di un popolo

In molti nel quartiere di Rebbio ricordano il dottor Sándor Lukács, ungherese trapiantato a Como negli anni ’70, conosciuto e apprezzato per il suo impegno civile. I più giovani probabilmente non sanno che Sándor Lukács, nato nel 1922 a Ujpest, oggi distretto di Budapest sulla riva sinistra del Danubio, durante la seconda guerra mondiale venne deportato in un campo in Ungheria, poi in Romania e, infine, in Austria. Dopo la guerra riprese gli studi in Italia e nel 1951 si laureò in medicina. Lavorerà sempre in strutture pubbliche specializzandosi in medicina maxillo-facciale e, a Como, ricoprirà il ruolo di primario fino alla pensione.

Ma il dottor Lukács è stato anche un appassionato cultore di scrittura e poesia e nel suo ultimo libro, “Moishele” pubblicato durante la pandemia poco tempo dopo la sua morte, Lukács consegna ai lettori una summa dei suoi libri precedenti tratteggiando la figura di un giovane, Moishele, che come lui ha conosciuto la violenza, la fuga, la persecuzione, ma anche l’amore e la rinascita. Un ruolo importante nella stesura di “Moishele” (Robin edizioni) l’ha avuta Caterina De Camilli Giacò, insegnante in pensione che è stata accanto a Sándor Lukács curando traduzione e note del romanzo. La curatrice ha ricordato Lukács in occasione della presentazione di “Moishele” lo scorso venerdì a Olgiate Comasco. A commentarlo anche l’onorevole Emanuele Fiano, figlio di Nedo Fiano, ebreo deportato ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia.

«Il dottor Lukács era un libero pensatore, una personalità difficile da ricostruire, di certo colpivano la sua fiducia, il suo guardare sempre al futuro - ha raccontato Caterina De Camilli Giacò - fu il primo a occuparsi di prevenzione dentale, anche nelle scuole, e si batté per il riconoscimento del titolo di studio di ortodonzia».

Il primo aiuto di Caterina è stato battere al computer il manoscritto, poi curare alcune traduzioni dall’ungherese e le note. Il dottor Lukács era puntiglioso, sentiva l’urgenza di completare il suo lavoro. «Ho più tempo che vita», le diceva.

«Non gli ho mai chiesto - ricorda la curatrice - ma sapevo della sua prigionia, mi disse: “nei campi ungheresi eravamo privati della libertà, in quelli tedeschi non solo di quella, noi sopravvissuti non siamo tornati tutti interi”».

In Ungheria gli fecero frequentare la scuola per calzolai, raggiunto il fratello in Italia, Lukács riuscì a specializzarsi in medicina. Studiò anche in Germania. «Mi raccontò - dice ancora Caterina - che non aveva difficoltà a seguire le lezioni in tedesco, ma che, in pausa caffè, con i tedeschi proprio non riusciva a parlare».

«Era rimasto molto legato alla sua Ungheria - ha sottolineato ancora - scriveva appunti i nella sua lingua madre e aveva una certa simpatia per Maria Teresa d’Austria, “un grande re e anche una grande regina” scherzava. Insisteva sul fatto che l’ebraismo non fa proselitismo e un punto del romanzo su cui tornava spesso è che il protagonista si salva perché si nasconde in un bordello e le prostitute lo proteggono. Ricordava anche degli ebrei legati a due a due e buttati nel fiume, di qualcuno che riusciva a salvarsi raggiungendo la sponda...»

Perché l’antisemitismo? si chiedeva Lukács. «Diceva che avrebbe voluto poter discutere con un antisemita intelligente, ma non l’ha mai trovato; sognava di un paradiso ebraico, dove poterne chiedere, finalmente, conto a Dio».

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