Nella periferia di Como c’è una casa che tiene viva la speranza

Reportage A Ponte Chiasso sopravvive un luogo che regala rifugio e sostegno alle donne in difficoltà

Giovedì alla Casa della giovane di Ponte Chiasso significa verdura. La portano in via Luigi Catenazzi i volontari della parrocchia di Rebbio, poi le donne della casa la cucinano. Voci e odori si diffondono nell’atrio insieme all’odore del cavolo che cuoce e una canzone allegra. Profumi e rumori di vita.

La struttura comasca aprì nel 1957 per le frontaliere

Le stanze dell’edificio, che si sviluppa su tre piani, sono invase dalla luce grigiastra di un pomeriggio di metà aprile che però ricorda l’autunno. Dalla Svizzera, che dista poco più di un chilometro, arriva ancora qualche timido raggio di sole. Una sala giochi, con divani grigi elegantissimi e mobili di un verde acceso donati, come tanti altri arredi all’interno della casa, attende solo che uno dei bimbi ospiti si svegli o torni dall’asilo. Accanto, subito dopo l’ufficio dove lavorano educatrice e responsabile, una grande sala: due giovani insegnanti, chine sui propri portatili, lavorano e si scambiano solo occasionalmente qualche suggerimento. «Preferisco non dire il mio nome» spiega una, dopo aver raccontato le peripezie che l’hanno portata a bussare alla porta della Casa della giovane. Non è l’unica a fare questa richiesta: per tutte e 27 le ospiti dell’edificio c’è una storia passata più o meno tragica che chiede il silenzio, più che la compassione. A meritare il racconto, sono invece i loro passi verso la rinascita.

La Casa della giovane di Ponte Chiasso venne fondata nel 1957 da Irma Meda, che dopo aver incontrato, nel bel mezzo di una fredda notte invernale, una giovane donna sola, rannicchiata sul ciglio della strada, decise di creare un luogo dove le donne, soprattutto le frontaliere, potessero trovare rifugio notturno prima di passare la dogana e andare al lavoro nella vicina Svizzera. Oggi in questa Casa, proprietà dell’Amministrazione comunale, riaperta a dicembre 2023 dopo due anni di pausa dalle attività e affidata a un’associazione, è tornata ad ospitare donne in difficoltà. Che sia economica, sociale o famigliare non importa: qui si trova un rifugio dove provare a rimettersi sulle proprie gambe.

«Qui sento che qualcuno mi accarezza l’anima»

C’è chi, come le due insegnanti impegnate a studiare o correggere compiti in sala, arriva da altre parti d’Italia per svolgere a Como il proprio lavoro, senza riuscire però a trovare un affitto abbordabile nella città lacustre i cui prezzi sono diventati ormai proibitivi. Ma c’è anche chi si lascia alle spalle un passato travagliato, fatto di sofferenza e soprusi. Come la giovane donna originaria del Niger che solleva da un passeggino una bimba di pochi mesi, bella e silenziosa. Basta un suo sorriso perché ciascuna delle 27 donne ospitate nella struttura si sciolga.

Qui si è figlie e nipoti di tutte. La mamma è una, ma le zie sono decine perché vivere un periodo, breve o lungo che sia, in questa Casa significa trovare non solo un letto in cui dormire ma anche una famiglia a cui appoggiarsi ogni giorno. Jadel, che ha da poco terminato gli studi di pasticceria e che in casa è indicata da tutti come la cuoca migliore, guardando negli occhi questa bimba perfetta non può fare a meno di sorridere quasi fosse davvero per lei una sorellina. Fa come lei un’altra donna, che si aggiunge al tavolo con gli occhi bassi.

Sono 27 le donne ospitate Lavoratrici o madri, non solo giovani

«Sono qui da un mese e mezzo. Nella casa dove vivevo prima c’erano problemi strutturali che hanno peggiorato le mie condizioni di salute. Un giorno, non so nemmeno perché, sono salita sul primo treno diretto a Como e, una volta scesa, al semaforo ho trovato un ragazzo che mi ha consigliato di chiedere aiuto a Porta Aperta. Lì ho ricevuto il numero di questa Casa, ma allora non avevano posti disponibili. Me ne sono dimenticata e ho fatto per un po’ la nomade di b&b in b&b, finché un giorno ho ritrovato il biglietto con il numero di telefono. Ho chiamato e ho sentito la voce di Fiorenza, la responsabile. Non so come spiegarlo ma ho sentito subito a pelle che questo era il posto giusto per me. C’è una sola parola per descriverlo: casa. Qui le donne ritrovano la dignità che gli è stata sottratta. Ci consideriamo tutte allo stesso livello e ci prendiamo cura l’una dell’altra. Oggi ho detto che avevo voglia di gelato e una di loro è uscita per comprarmelo. Funziona così: ci si sente ascoltate, non mi è mai capitato altrove. Qui mi sento accarezzata nell’anima».

E intorno a lei, mentre pronuncia queste parole, fioriscono sorrisi e mani si allungano per stringerne altre: un intreccio indissolubile.

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