Da anni in piazza contro la violenza di genere, il racconto di una comasca: «Sono andata da sola, ma non mi sono mai sentita sola»

Testimonianze Letizia da anni prende parte alle manifestazioni del 25: «Ho capito che dopo la morte di Giulia Cecchettin qualcosa è cambiato»

Commozione e rabbia. Una piazza viva che non ha più intenzione di stare zitta. «Siamo la voce feroce di chi non può più parlare» c’è scritto su un cartello, uno dei tanti che affollano Largo Cairoli. Davanti al Castello Sforzesco a Milano l’umanità che sfila è la più diversa: molte donne, coppie con i passeggini, figlie con i papà, ragazze con i fidanzati, uomini soli. Letizia Marzorati ha deciso di esserci. Ogni anno prende parte alle manifestazioni per il 25 novembre, La Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le donne, ma solitamente a livello locale, nel Comasco. Quest’anno il richiamo del capoluogo è stato troppo forte.

«Sono andata sola, ma non mi sono sentita sola un attimo - racconta - Piuttosto abbracciata da una comunità di cui fare parte, un movimento trasversale in età, generazioni, culture, generi, che voleva fare la differenza. Se eri lì è perché sei stanco di come vanno le cose, vuoi cambiarle, senti l’esigenza di fare qualcosa». Letizia da sempre ha una sensibilità verso il tema della violenza sulle donne che esprime sia umanamente che nella sua professione, essendo coinvolta in progetti sociali di empowerment femminile e in prima persona con l’associazione di volontariato La Fenice.

«Mi ha colpito tanto trovarmi in un clima di empatia generale, in cui alle lacrime si è mischiata la forza di farsi sentire, vedere, rispettare. Ho percepito come, dopo anche la morte di Giulia Cecchettin, qualcosa sia cambiato. Il 25 novembre da giornata da celebrare è diventata un vero e proprio movimento, un’onda che spero continui a raggiungere più persone possibili». Durante la manifestazione sono stati letti i nomi e i cognomi delle donne vittime quest’anno di femminicidio, anche i nomi dei loro uccisori, ripercorrendo le storie di ognuna. «A mio parere il rischio più grave è che a questi delitti e a tutto questo dolore ci si abitui come capita per le guerre, che i riflettori si spengano fino al prossimo delitto. Ma da quella piazza è nato un sentimento di reazione che deve continuare ad ardere e che ciascuno di noi ha il compito di alimentare». Di donne che hanno sofferto per la violenza degli uomini Letizia ne ha incontrate diverse, in particolare in Bosnia, dove è entrata in contatto con una realtà molto particolare, l’associazione “Forgotten Children of War”, nata nel 2015.

Il conflitto dell’ex Jugoslavia degli anni ’90 ha provocato in Bosnia-Erzegovina circa 100mila morti, un genocidio, e prodotto nuove categorie di crimini contro l’umanità, come pulizie e stupro etnico. «Ho conosciuto Ajna Jusìc, presidente di questa associazione che l’ha portata due anni fa davanti all’Assemblea dell’Onu, proprio il 25 novembre, a parlare del tema dei figli degli stupri di guerra. La mamma di Anja Jusìc è stata vittima di violenza sessuale, lei non ha mai conosciuto il padre, ma di certo ha dovuto affrontare tutte le conseguenze del suo stato, vendendosi negare una serie di diritti civili, per poi essere stigmatizzata ed esclusa dalla sua stessa società. Sapere della sua battaglia e dell’impegno di questo sodalizio mi ha trasmesso una grande forza e l’impulso per continuare anche nel mio territorio a sostenere progetti che mettono al centro la donna». Durante la guerra in Bosnia, sono state tra le 20 e le 50mila le persone che hanno subìto abusi o violenze sessuali, tra donne, ragazze e uomini. Alcuni storici parlano di un patriarcato di guerra. Ajna Jusìc oggi si impegna nell’attivismo per far emergere le storie delle donne che la guerra l’hanno vissuta sui loro corpi.

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