In Ticino si torna in classe, ma «mancano docenti formati»

L’analisi Fabio Camponovo, presidente del “Movimento della Scuola”, approfondisce il tema tra problemi antichi e tematiche nuove: «Il mestiere dell’insegnante sta soffrendo una perdita di prestigio nei confronti dei genitori e degli stessi alunni»

La scuola in Svizzera è iniziata da pochi giorni, il 28 agosto, e in alcuni Cantoni con problemi importanti. Due i più evidenti: la carenza di insegnanti e quella di docenti adeguatamente formati. Fabio Camponovo, presidente del “Movimento della Scuola”, oggi la principale associazione magistrale ticinese di cui è stato anche tra i fondatori, e docente universitario, analizza la situazione.

Professore, qual è oggi la situazione del personale docente carente nelle scuole svizzere?

La carenza di insegnanti formati, e alludo a docenti con formazione completa, sia scientifica che pedagogico-didattica, interessa diversi paesi OCSE. La Svizzera in questo caso non fa eccezione. Ovviamente il panorama scolastico elvetico, che resta in buona parte di competenza cantonale (e la Svizzera è una federazione di 26 Cantoni!) è assai frastagliato. L’impegno orario settimanale e il trattamento salariale variano moltissimo, fino ad arrivare, nel confronto intercantonale e per tutti i settori di riferimento, a scarti di 30.000 franchi annui e più! Si potrebbe dunque pensare che questi fattori giochino un ruolo determinante nella motivazione alla professione, ma non è sempre il caso. Ci sono Cantoni, penso a Zurigo e a Berna, dove spesso i salari sono più alti della media svizzera, che si confrontano da anni con una cronica penuria di insegnanti.

Il problema è presente nelle scuole dell’obbligo o anche alle superiori?

Il problema investe principalmente le scuole dell’obbligo. Mancano soprattutto maestri del settore primario, ma è ben presente anche per l’insegnamento di alcune discipline proposte nel secondario 1 (scuole medie). In questo caso è richiesta una formazione accademica più una formazione professionalizzante pedagogico-didattico. In Ticino per esempio il fenomeno è marcato per l’insegnamento di due materie, la matematica e il tedesco, ma si presenta saltuariamente (se pure in maniera meno importante) anche nel settore primario e per altre discipline. La pessima soluzione adottata, che finisce per svilire la figura professionale del docente, è quella di organizzare dei corsi integrativi chiudendo un occhio sulla formazione dei candidati.

Mancano anche docenti formati, la professione dell’insegnante non piace più?

Questa è forse la questione più intrigante e più complessa: come mai non sembra più esserci interesse professionale per l’insegnamento? Che succede alla scuola e alla figura del maestro? Le risposte possono essere molte e articolate. Mi limiterò a indicare due o tre prospettive d’indagine, senza pretesa alcuna di completezza. La prima. Il mestiere dell’insegnante ha conosciuto un’involuzione importante, perdendo gran parte di quella riconoscibilità sociale e culturale che lo contraddistingueva, soffrendo di una perdita di prestigio che oggi è sociologicamente acclarata. Il dibattito sulla professionalità dell’insegnante, e dunque anche sulle condizioni della sua formazione e qualificazione, dovrebbe essere centrale nella gestione responsabile della scuola del futuro prossimo, poiché la figura del “maestro” è centrale nel percorso emancipatorio del giovane alunno e fondamento irrinunciabile di un paese democratico. La seconda. L’affermazione progressiva di una “società liquida”, secondo la felice metafora che fu usata per la prima volta dal filosofo polacco Zygmunt Bauman, cioè di una società fondata su una sorta di “usa e getta” valoriale, ha prodotto una crisi profonda nell’identità del percorso scolastico. La scuola ha perso quel monopolio formativo e quel prestigio sociale di cui poteva disporre. Confrontata la frammentarietà straniante delle moderne forme d’accesso al sapere e di fronte all’impressionante sviluppo delle nuove tecnologie, fatica a ritrovare un’identità nuova. Il maestro diventa un tuttofare educativo al quale si è pronti a rinfacciare ogni insuccesso. La terza. Se c’è una percezione oggi condivisa è di un mutamento negli ultimi decenni nei processi educativi. Alcuni fenomeni sono evidenti ed esterni alla scuola stessa: la composizione socio-culturale delle classi, il rapporto scuola-famiglia, gli indirizzi programmatici e curricolari (quante riforme in pochi decenni), il valore sociale e professionale della formazione; altri sono meno palesi, ma manifesti: il significato civile ed emancipatorio dell’atto conoscitivo, l’indebolimento dell’identità culturale e intellettuale del docente, il suo disagio professionale, l’enfasi psico-pedagogica che ne caratterizza i percorsi formativi. Nel caso del profilo professionale dell’insegnante abbiamo forse puntato più sull’impiego pedagogico-didattico che su quello culturale e intellettuale. Sapremo invertire la rotta?

I sindacati denunciano la necessità di rivedere gli stipendi e il tempo di lavoro degli insegnanti, come migliorare la situazione?

In Svizzera, diversamente da quanto avviene in Italia, la questione salariale incide solo parzialmente. Semmai sono le condizioni di lavoro a pesare negativamente: il rischio del bornout è reale e da una recente inchiesta ticinese risulta che quasi il 60% dei docenti e oltre il 70% dei direttori si sente in sovraccarico di lavoro! Una vera svolta passa dal fatto che al riconoscimento formale della centralità della scuola e del suo potenziale educativo, sono affermazioni queste ben presenti negli assunti politici, facciano seguito interventi concreti mirati a salvaguardare l’autonomia intellettuale dell’insegnante e a garantirgli condizioni di lavoro e condizioni salariali adeguate.

Si reclutano insegnanti anche dall’Italia, c’è resistenza nell’assumere personale non svizzero?

La realtà che conosco bene è quella ticinese. La scuola ticinese negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso ha potuto svilupparsi grazie all’apporto competente e preziosissimo di insegnanti italiani. Oggi non è più così. La disponibilità di valide candidature indigene ha portato ad alcune chiusure. L’accesso non è formalmente precluso a chi proviene dall’Italia, ma la priorità (anche per affinità di natura pedagogica) è data per lo più a chi ha acquisito un diploma professionale d’insegnamento, oggi obbligatorio, negli istituti di formazione elvetici. Solo nei casi di penuria di insegnanti si apre anche a candidati provenienti dall’estero.

Nella scuola svizzera ci sono altre problematiche emergenti?

Non è un problema solo elvetico, ma è innegabile che in un contesto generale nel quale la scuola da “Istituzione dello Stato” si avvia ad essere percepita come semplice “servizio educativo”, dove cioè i genitori e gli allievi stessi si trasformano da “cittadini” in potenziali “clienti”, a farne le spese è la figura tradizionale dell’insegnante. Forse non è un caso se in questi ultimi anni veniamo a conoscenza di casi nei quali si esercitano forme di violenza psichica e fisica nei confronti delle e dei docenti. È un fenomeno che faremmo bene a non trascurare, segnale anche di una incapacità politica di affrontare il tema.

La presenza di alunni ucraini o di altri rifugiati è un impegno gravoso per le scuole svizzere?

Il fenomeno immigratorio è presente anche in Svizzera. La popolazione scolastica è più eterogenea e non si tratta soltanto di differenze socio-cultuarli o cognitive, bensì di un’eterogeneità che investe i patrimoni linguistici, religiosi e culturali degli allievi. Esistono, in particolare nelle scuole dell’obbligo, figure di docenti d’appoggio e/o di “docenti di lingua e integrazione”. Ciò non toglie che di fronte a fenomeni immigratori importanti, come quelli dei rifugiati ucraini, un peso non indifferente nella gestione del lavoro in classe grava sulle spalle delle e dei maestri.

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