Benevolo (Imprima): «L’automazione non basta, servono tecnici preparati»

Federico Benevolo, amministratore delegato del gruppo Imprima, guarda alle prospettive dei mercati globali. «Con la tecnologia si fa tanto, ma nel tessile restano fondamentali competenze ed esperienza del personale»

Imprima, gruppo italiano tra i principali operatori europei della stampa tessile con un’importante sede (tra altre) produttiva a Bulgarograsso. Grazie a un accordo raggiunto con Amco - Asset management company, il nuovo piano industriale 2024 – 2028 prevede una crescita dei ricavi del 23%, superando gli 86 milioni di euro entro il 2028.

Federico Benevolo, ceo di Imprima, aggiunge che l’espansione sui mercati esteri del gruppo consentirà di rafforzare il posizionamento in Italia e non solo, implementando investimenti in innovazione, sostenibilità e risorse umane.

Vista la competitività sui mercati globali, come pensate di innovare una parte della filiera in funzione dei clienti più lontani e dinamici in Far East e Usa?

C’è una profonda differenza tra il mercato europeo e quello nord americano. Gli Stati Uniti, per esempio, ormai non comprano quasi più il tessuto per poi destinarlo alla confezione. Gli Usa importano direttamente il capo finito che, per quella parte del mondo, viene fatto al 90% in Vietnam e in Cambogia. Ora se i grandi player americani chiedono la produzione in Asia di tessuto di qualità, realizzato con precisione e attraverso processi sostenibili, proprio come lo realizziamo in Italia, noi dobbiamo trovare il modo di soddisfare questa esigenza prima che lo facciano altri. Questo è uno dei motivi per cui strategicamente dobbiamo presidiare quella parte del mondo e trovare il modo di gestire al meglio anche la relazione con quelle produzioni.

È possibile immaginare manifattura di qualità, con i macchinari italiani, col know how italiano, in sud est asiatico?

Sì, è possibile attraverso il controllo digitale che consente di seguire e dirigere da remoto la produzione delle macchine e le relative performance. Noi abbiamo tutte le competenze per poter realizzare questo passaggio e seguire, con le abilità che abbiamo in Italia, una fabbrica in linea dall’altra parte del mondo. È questa l’evoluzione dell’industria 4.0, ma attuarla nel tessile è più complicato perché le variabili non sono standardizzabili. È proprio la capacità di interpretare come agire nelle diverse condizioni che conferisce qualità ai prodotti ed è questa la specializzazione italiana del settore. Tutto questo per ora non esiste, tant’è vero che non c’è al momento una qualità paragonabile alla produzione italiana. Il livello dei tessuti è ancora molto basso, mentre la clientela cinese e americana sta aspettando qualcuno che produca in quell’area con la nostra qualità, in particolare per la fascia premium.

Il mercato cinese si prospetta molto ampio, anche oltre quello americano. C’è una crescente domanda da parte della borghesia asiatica: è la clientela potenziale per un prodotto di qualità che al momento manca. I confezionisti per quell’area ci sono già, mancano le tessiture del livello richiesto, quindi le opportunità sono tante, bisogna riuscire a coglierle.

Se volumi, mercato e domanda per Cina e Usa sono nell’area del Pacifico, il ruolo che può assumersi l’Italia è quello di esportare il suo “saper fare”, con quali difficoltà?

Saranno necessari investimenti importanti e resta il nodo delle risorse umane perché tutto ciò comporta che persone giovani imparino un processo, lo maturino per poi essere in grado di trasportarlo in un’altra parte del mondo. A questo si aggiungono altre due difficoltà: una lingua diversa e una cultura diversa. Non è certamente facile trovare un giovane ragazzo che voglia iniziare a fare l’operaio, che parli le lingue e che sia disposto a crescere in un contesto così diverso. Per questo la via possibile, concreta, è quella di sviluppare strumenti digitali per lavorare allo stesso livello ma da remoto.

Resta comunque il problema che, al momento, il tessile non gode di grande attrattività. In molti vogliono andare a lavorare nei brand di moda, ma è percepita diversamente la filiera produttiva.

A proposito di risorse umane, quanti sono i dipendenti del gruppo e quali sono le difficoltà?

Il personale in Italia conta, complessivamente, 340 dipendenti, di questi un centinaio sono impiegati nel polo produttivo di Bulgarograsso. Nella ricerca di figure specializzate ci si imbatte in una serie di problemi. Manca una piena sinergia fra le aziende e le scuole per percorsi di inserimento già durante gli anni di formazione. Si dovrebbe aspirare a una maggiore integrazione fra gli enti del territorio per avviare gli studenti al lavoro e alle competenze richieste da questa professione. Ora quando introduciamo in azienda un operaio dobbiamo formarlo su molti aspetti. C’è poi la questione di far conoscere ai candidati in cerca di lavoro le opportunità che offriamo, che un canale più diretto con le scuole risolverebbe.

Eppure proprio in questi mesi le aziende hanno richiesto la cassa integrazione, nonostante l’offerta di occupazione sia ancora alta, come si spiega?

Abbiamo un andamento apparentemente contraddittorio: siamo in una fase del mercato altalenante, in cui si alternano settimane in cui occorre ricorrere alla cassa integrazione perché non si riescono a usare al massimo impianti e orari di lavoro, seguite da altre in cui arrivano molti ordini e diventa necessario addirittura il ricorso allo straordinario.

Questo rende meno attrattive le nostre aziende per chi cerca lavoro. Per cui prima dobbiamo persuadere le persone che questo è un lavoro molto interessante e dinamico, che può diventare altamente specializzato e professionalmente soddisfacente. Poi i candidati vanno convinti a lavorare per noi, in seguito formati e infine trattenuti: tutto questo costituisce una sfida importante.

Ci sono inoltre figure più strategiche come i responsabili di una rotativa, il capo stampa o il responsabile di una linea di finissaggio: sono profili delicatissimi in cui la componente umana è fondamentale, perché questo è un settore in cui ci sono variabili di luce, umidità, temperatura che incidono sul risultato e richiedono competenze molto specifiche che si affinano con l’esperienza.

Si è da poco conclusa Milano Unica, con quali risultati?

La fiera ha fatto un passo in avanti rispetto alle precedenti edizioni: si è alzata la qualità dei clienti. Tutti quelli che normalmente avremmo incontrato a Première Vision sono venuti anche a Milano. Inditex, Mango, Calzedonia, Max Mara: c’erano tutti. Quindi la presenza è stata buona dal punto di vista qualitativo e l’affluenza è stata in generale significativa.

A parte una presenza di giapponesi, dovuta forse al fatto che era presente un padiglione del Giappone, la maggior parte dei buyer erano europei.

Il panorama internazionale è quanto mai incerto: quale impatto hanno le crisi globali su un gruppo diffuso in tutto il mondo come il vostro?

Come azienda abbiamo attraversato in questi ultimi anni tante crisi improvvise e abbiamo appreso come gestirle. Certamente i lockdown, ma soprattutto è stato complicato da affrontare per un’azienda energivora come la nostra l’aumento del costo dell’energia dello scorso anno con il raddoppio dei prezzi, considerando che i clienti non hanno accettato gli aumenti dei costi di produzione.

A questo si sono aggiunte le due guerre e la crisi inflattiva che ha come effetto l’aumento dei costi del prodotto e la riduzione dei consumi. In particolare noi viviamo un momento in cui il tessuto stampato non viene inserito dai grandi marchi e questo ha un effetto proprio sul distretto di Como, anche se mi è sembrato di cogliere i segnali di una inversione di tendenza.

In tutto ciò è arrivata la crisi del Canale di Suez. Ma non abbiamo preoccupazioni relative alla mancanza di materia prima: a parte l’aumento dei noli che è un fenomeno in parte speculativo, al momento abbiamo comunque parecchi milioni di metri a stock, quindi siamo abbastanza sereni.

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