
Imprese e Lavoro / Erba
Lunedì 23 Giugno 2025
Dalla crisi alla rinascita. La leva della cooperazione per il Birrificio Messina
L’intervista Il caso del Birrificio Messina rilanciato da quindici lavoratori, indicato come un modello di Workers Buyout. Mimmo Sorrenti, presidente della cooperativa: «Oggi siamo a 35 collaboratori e continuiamo a crescere»
Un’impresa rigenerata dai lavoratori attraverso lo strumento della cooperazione. Mimmo Sorrenti ha portato a Como la storia del Birrificio Messina, di cui è presidente. Al cinema Astra è stato infatti proiettato - durante la festa di chiusura estiva organizzata in collaborazione con Confcooperative Insubria - il documentario “I quindici”, realizzato dal regista Alessandro Turchi.
Un documentario che ripercorre l’origine di questa azienda speciale, rinata grazie alla determinazione di un gruppo di lavoratori. Un’attività storica, iniziata nella città dello Stretto nel 1923 e che nel 2016 è letteralmente rinata attraverso la nascita di una cooperativa creata dai lavoratori.
Un classico modello di Workers Buyout che si è potuto concretizzare grazie al sostegno della Legge Marcora ( 49/1985), analogo nel percorso al caso della Patrolline di Albavilla.
Da dove viene il Birrificio Messina?
La città di Messina ha una lunga tradizione brassicola. Qui esisteva un birrificio Heineken, comprato nel 2006 dalla famiglia Faranda. Questi nuovi proprietari hanno promesso fin da subito di mantenere l’attività e garantire quindi il posto ai dipendenti. Io in quegli anni ero rappresentante dei lavoratori e sapevo che era stato deciso di far cambiare la destinazione d’uso del terreno dove si trovava l’impianto da industriale a residenziale. Li abbiamo aiutati a farlo, ma una volta ottenuto il cambio abbiamo capito: si trattava solamente di una speculazione edilizia, e infatti in poco tempo siamo stati licenziati. Abbiamo subito avviato un presidio, volevamo sia preservare lo stabilimento, sia far entrare i nostri compagni a lavorare. I proprietari però tenevano duro sulla loro linea, non c’era possibilità di dialogo.
A questo punto avete deciso di creare la cooperativa.
Esattamente, abbiamo capito che l’unica via per continuare a produrre birra era iniziare un progetto completamente indipendente. Nell’agosto del 2013 abbiamo fondato la cooperativa “Birrificio Messina”, in totale avevamo ricevuto adesioni da quindici dipendenti. Dovevamo però trovare un nuovo stabilimento. Dopo un’attenta ricerca, ne abbiamo individuato uno nella zona industriale di Messina. Ci siamo quindi mobilitati per ottenere la concessione dalla Regione Sicilia e, una volta ottenuta la concessione, abbiamo iniziato a pensare alle macchine e, cosa molto importante, al nostro piano finanziario.
Quanto avete investito nell’attività inizialmente? E come avete fatto a trovare le risorse?
All’inizio è stato piuttosto difficile capire su quante risorse avremmo potuto contare. Per molte banche non avevamo abbastanza requisiti per ricevere un finanziamento, ma grazie alla collaborazione con la Fondazione di Comunità di Messina abbiamo potuto contare su un garante. Questo ci ha permesso di appoggiarci ad alcune banche cooperative con più sicurezza. L’investimento iniziale è stato di poco più di 5 milioni e, per farcela, abbiamo dovuto aprire dei mutui e mettere le case dei primi soci della cooperativa in garanzia.
Oggi che dimensioni ha il vostro birrificio?
Siamo partiti da un piano per 20 mila ettolitri e poi, visto anche il grande incoraggiamento ricevuto dalla popolazione, siamo arrivati a 50 mila. Ad oggi, continuiamo ad investire e ad espanderci: avevamo otto serbatoi e li abbiamo portati a diciannove, e da quindici persone siamo diventati trentacinque. Anno dopo anno, alcuni dei fondatori sono andati in pensione, ma rimangono comunque soci della nostra attività.
Come descriverebbe la vostra birra?
Sicuramente come un prodotto legato al territorio. Un tempo infatti Messina dava da mangiare a molte persone, ma poi, a poco a poco, aziende e attività hanno chiuso. Si può dire che la Heineken era l’ultima grande realtà rimasta. Non potevamo permettere che chiudesse, anche perché in città abbiamo sempre avuto una grande passione per la birra: pensate che alcuni dei soci del Birrificio Messina provengono da una terza o un quarta generazione di birrai! Insomma, il carattere principale delle nostre birre è il loro legame con la storia del posto e con le tradizioni messinesi. Tutto ciò si traduce anche nel gusto e nelle tecniche che usiamo. Mettiamo infatti sul mercato solo birra di grande qualità, come dimostrano sia i mastri birrai - che hanno valutato molto positivamente i nostri prodotti - sia i nostri clienti, sempre soddisfatti.
Come sono organizzati i vostri impianti?
Al centro della nostra produzione c’è la sala cottura, composta da quattro tini in acciaio inox, gestiti in totale automazione. La cantina ospita invece i fermentatori, tutti dotati di sfere di lavaggio per garantire una sanificazione efficace e una fermentazione continua e controllata. Il sistema CIP - ossia Clean In Place - assicura lavaggi e sterilizzazione in circuito chiuso, mentre un laboratorio interno effettua analisi microbiologiche e controlli su grado alcolico, amarezza e colore. L’impianto di imbottigliamento, completamente automatizzato, riesce a gestire oltre 12.000 bottiglie all’ora. Infine, il reparto logistica regola tutti i diversi flussi in entrata e in uscita, coordinandosi con la pianificazione della produzione e l’approvvigionamento delle materie prime.
Avete lavorato anche sulla sostenibilità?
Sì, abbiamo installato impianti fotovoltaici sui due capannoni dello stabilimento, ottenendo una potenza complessiva di circa 120 kW. I benefici economici derivanti da questo investimento li vedremo nel corso degli anni, ma già ora riusciamo ad auto-consumare gran parte dell’energia prodotta. Abbiamo inoltre lavorato per ridurre il consumo idrico: oggi, l’acqua utilizzata nei processi produttivi viene in parte recuperata e riutilizzata, ad esempio per alimentare i servizi igienici.
Come funziona invece il vostro progetto di economia circolare, il Restart?
Restart nasce grazie a un partenariato che include più soggetti. Mira a trasformare le trebbie - ossia gli scarti della lavorazione della birra - in bioplastica. Collaboriamo con uno stabilimento locale che lavora questi materiali e abbiamo già ricevuto i primi campioni e prodotto alcuni piccoli oggetti, come ad esempio delle penne. Una parte delle trebbie viene inoltre destinata all’alimentazione animale, contribuendo così ulteriormente a ridurre gli sprechi. Si tratta di un progetto LIFE, quindi cofinanziato dall’Europa.
E il documentario? Chi ha avuto l’idea di girare “I quindici”?
Il documentario è nato da un’idea del regista Alessandro Turchi e di alcuni ragazzi che fanno parte di una comunità attiva nella gestione di spazi teatrali. Dopo la chiusura di uno dei loro teatri, hanno infatti iniziato a impegnarsi per difendere e rilanciare quei luoghi di cultura, e in questo percorso ci hanno sostenuto. Da lì è nata un’amicizia. Turchi mi ha proposto di raccontare tutto ciò che abbiamo vissuto. Ha seguito il nostro percorso, documentando ogni fase. Ne è venuta fuori una bella narrazione che parla di lavoro, impegno e sforzo collettivo. Proprio come nel caso della rinascita del Cinema Astra di Como, che ha ospitato la proiezione, si tratta di una storia a lieto fine.
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