Cronaca / Lago e valli
Venerdì 26 Dicembre 2025
L’incendio doloso sull’Alpe Brento
Piromane condannato anche in Appello
Garzeno Confermata la pena di due anni e otto mesi a carico dell’uomo di Dongo
Garzeno
Ad andare in fumo, in un gigantesco incendio che il 25 marzo 2019, nel corso del pomeriggio, si sviluppò in più punti e quasi in contemporanea sull’Alpe Brento di Garzeno, furono 432 ettari di montagna, la gran parte destinati al pascolo, ma con anche 104 ettari di bosco.
Un rogo di vaste dimensioni, che fu domato solo dopo quattro giorni di lavoro ininterrotto ed estenuante da parte dei vigili del fuoco. Le fiamme, tra l’altro, distrussero anche una cascina.
Per quella brutta pagina di cronaca del nostro territorio, la Procura di Como – al termine di una indagine coordinata dal pubblico ministero Giuseppe Rose con il contributo dei carabinieri Forestali – arrivò ad iscrivere sul registro degli indagati due persone: padre e figlio.
Il padre nell’ottobre del 2024 era stato condannato in primo grado a due anni e otto mesi di reclusione. Il figlio, invece, era stato assolto perchè era riuscito a dimostrare che, al momento dello svilupparsi dell’incendio, si trovava al lavoro in Svizzera, e non in Altolago.
Di fronte ai giudici dell’Appello, in questi giorni, la questione è tornata di nuovo protagonista.
Nessun colpo di scena: la sentenza di primo grado pronunciata nel tribunale di Como è stata confermata anche dai magistrati milanesi.
Condannato, insomma, il 67enne di Dongo, che secondo l’accusa giocò un ruolo chiave in quell’incendio, avendone anche un movente da ricercare nel tentativo di «ripulire i terreni» dalle erbacce dopo aver subito una decurtazione del contributo regionale quantificato sugli ettari pascolabili.
Insomma, i due anni e otto mesi di Como sono rimasti due anni e otto mesi anche a Milano, con la sentenza confermata e la difesa, con l’avvocato Walter Gatti, che ha già preannunciato il prossimo ricorso in Cassazione.
Il pubblico ministero e i carabinieri forestali avevano portato sul banco del giudice un testimone che aveva visto un uomo “non conosciuto” accendere i focolai per poi scappare con una Fiat Panda scura; ma al vaglio erano finite anche una serie di intercettazioni – tra cui la frase pronunciata dal donghese «Non hanno le prove», che era stata tradotta dal dialetto da un apposito perito - e infine anche il cellulare dell’imputato che agganciava una cella compatibile con il punto di fuga dalla montagna in fiamme.
Ma nelle motivazioni i giudici meneghini hanno puntato soprattutto sulle intercettazioni delle comunicazioni dell’uomo e su un paio di passaggi: nel primo veniva detto «Ma io lo accendo ancora a settembre», che per l’accusa dimostrerebbe l’intenzione di ripetere un qualcosa di già compiuto, con una «sorta di involontaria e implicita ammissione».
Il secondo è proprio quel «gan mia i proof» (non hanno le prove), che dimostrerebbe come l’imputato non fosse interessato tanto all’incendio – che stava preoccupando tutti – quando alla presenza o meno di prove che lo riguardassero.
© RIPRODUZIONE RISERVATA