«La rivoluzione del tessile moda. Ci prepariamo al mondo nuovo»

Sergio Tamborini, ad di Ratti, evidenzia la rapida e profonda trasformazione del mercato con la polarizzazione dei prezzi e un calo dei volumi che sta mettendo in allarme la manifattura. «Non è una crisi classica, ma il nostro sistema è pronto ad affrontare anche questa fase»

Il mercato è in fase di rapida trasformazione e ciò che è stato per molti anni un solido riferimento, domani potrebbe non esserlo più.

Il distretto tessile comasco naviga attraverso il cambiamento, forte di un straordinaria capacità di adattamento, che vent’anni fa gli ha permesso ad esempio di superare la crisi della cravatteria, di un ecosistema solido e attrezzato e soprattutto di aziende che, come Ratti, nei momenti di difficoltà hanno forza e visione per investire e prepararsi al futuro nel migliore dei modi.

Su questi temi verte l’incontro con Sergio Tamborini, amministratore delegato di Ratti, già presidente di Sistema Moda Italia, oggi Confindustria Moda.

Dottor Tamborini, lei ha parlato diverse volte in passato di una “rivoluzione” in corso nel sistema moda, non di una semplice crisi. Quali sono i pilastri di questa trasformazione che la rendono così radicale?

Non è una crisi classica perché non sappiamo come ne usciremo, a differenza di una discesa e risalita nota. È una rivoluzione scatenata dalla polarizzazione del mercato. I marchi, nel tentativo di difendere i margini, hanno aumentato i prezzi in modo esorbitante (dal 10 al 30% in pochi anni), creando una forbice insostenibile tra il lusso vero e proprio e la “moda accessibile”. Questo ha portato alla perdita di circa 50 milioni di consumatori della fascia media nel mondo occidentale, consumatori che non sono stati compensati dai nuovi “veri ricchi”.

Questo aumento dei prezzi quale effetto ha avuto sulla manifattura, sul monte della filiera della moda?

Il paradosso è che le aziende del lusso hanno aumentato il fatturato grazie all’incremento dei prezzi, ma contemporaneamente hanno assistito una diminuzione dei pezzi venduti. Se vendo il 25% in meno di un prodotto, anche se il mio fatturato cresce, la manifattura a monte – che deve produrre quei pezzi – subisce una crisi di volumi e una conseguente crisi finanziaria. Questo è il cuore della nostra attuale sofferenza.

Qual è l’impatto di questa crisi di volumi sul distretto tessile di Como e sul sistema dei terzisti in generale?

L’impatto riguarda il calo dei volumi che sta portando alla chiusura o al ridimensionamento dei terzisti e dei piccoli artigiani, che sono la spina dorsale del nostro sistema. Se da dieci tintorie si passa a due o tre, c’è un rischio di disgregazione della filiera stessa. La nostra sfida, come azienda industriale più strutturata, è invece la flessibilità. Mentre un converter (che esternalizza la produzione) può flessibilizzare rapidamente ed è in condizione di gestire i momenti di difficoltà senza un impatto eccessivo sui costi, un’azienda con grandi impianti industriali come la nostra subisce maggiormente il calo dei volumi.

Ritiene che il distretto comasco saprà resistere a questa fase di profondo cambiamento del mercato?

Nessuno oggi sa quale sarà la situazione tra qualche anno. Posso dire di avere grande fiducia, il distretto comasco può vantare un tessuto di aziende sano ed ha dimostrato in passato grande capacità di adattamento. Penso a quanto è avvenuto all’inizio degli anni 2000 quando è entrato in crisi il settore dei tessuti per cravatte che sul territorio valeva circa un miliardo di euro. Bene, il distretto è stato in grado di rivitalizzarsi, virando verso i segmenti del lusso e del pronto moda.

Questa resilienza è stata supportata da investimenti continui in tecnologia, come l’avvento della stampa digitale Inkjet che ha rivoluzionato i paradigmi produttivi, riducendo i tempi e i costi a fronte di una quasi totale sparizione di parte della filiera tradizionale (come lo stampatore a tavolo).

La trasformazione del mercato ha creato uno spazio nel “lusso accessibile” lasciato vacante. Chi sta provando a occuparlo?

Lo spazio c’è, ma la ricetta è complessa. Il vero problema per i marchi medi è la distribuzione: con la chiusura di migliaia di negozi multimarca in Europa, anche un prodotto di qualità media con un prezzo corretto fatica a trovare il consumatore.

Oltre alla fascia alta, il mercato è attaccato anche dal basso attraverso l’ultra fast fashion. Come può un sistema manifatturiero basato sulla qualità competere con magliette in vendita a due euro?

Non può competere sul prezzo, ma deve rispondere con innovazione e sostenibilità verificabile. L’ultra fast fashion, soprattutto proveniente dal Far East, ha prezzi talmente bassi da aver messo in crisi persino il sistema della raccolta degli abiti usati in Africa. La nostra risposta è investire nel valore intrinseco del Made in Italy, nella trasparenza e nella qualità del processo produttivo. Dobbiamo puntare su prodotti con una longevità e una sostenibilità reale, non solo di facciata.

A proposito di sostenibilità, come stanno gestendo i giovani il rapporto tra l’etica e l’acquisto di capi ultra-economici?

C’è una contraddizione evidente. Da un lato, i giovani sono i principali motori del second hand, un mercato in forte crescita (+20% annuo) che è stato completamente sdoganato e apprezzato anche da una parte degli adulti. Dall’altro, i giovani sono tra i principali acquirenti dell’ultra fast fashion. Questo implica che la sostenibilità, sebbene sia un valore, non sempre risulta il primo driver di acquisto quando c’è l’attrattiva di un prezzo estremamente basso. La trasparenza sui costi reali e ambientali diventa cruciale.

Il distretto di Como è storicamente legato alla seta. Qual è il valore che si è preservato nel tempo in questa manifattura?

Il valore risiede nella nobilitazione, in particolare nella tintura, nella stampa e nel finissaggio. La storia di Como è legata all’acqua per questi processi, e abbiamo investito in un sistema idrico industriale e di depurazione unico per salvaguardare la risorsa e l’ambiente. Ma il vero valore che permane è la capacità creativa e artigianale italiana. I cinesi hanno la materia prima, ma non hanno le nostre competenze artistiche e la capacità di gestire il “vecchio mix” tra arte e tecnologia, che è il cuore del Made in Italy.

Il sistema di stampa digitale l’Inkjet è stata negli scorsi anno una rivoluzione. Quali sono gli altri investimenti tecnologici cruciali per Ratti oggi?

L’Inkjet è stato un salvavita negli anni 2000, rivoluzionando i tempi di produzione. Oggi gli investimenti sono molteplici e riguardano sistemi informativi come il nostro recente investimento da 8 milioni di euro per ottimizzare i flussi e gli ordinativi; riguardano i macchinari flessibili per diversificare la produzione e ridurre i consumi, ma soprattutto riguardano le persone, la crescita e il welfare. Investire nelle persone significa adoperarsi per la loro formazione a fronte di uno sviluppo della tecnologia che richiede competenze nuove e specifiche. Significa anche stanziare importanti risorse per la riorganizzazione interna in accordo con le organizzazioni sindacali.

In che modo l’Intelligenza Artificiale (AI) influenzerà il vostro lavoro e l’occupazione?

L’AI influenzerà sicuramente le attività indirette (colletti bianchi) e richiederà una qualificazione diversa del personale. La tecnologia digitale ha oggi un impatto importante anche in produzione, mentre prima la qualità della stampa dipendeva dal disegnatore, dal fotoincisore e dallo stampatore a tavolo, oggi si basa sull’abilità di chi crea il file corretto e di chi pattuglia le macchine. E ancora,l’AI generativa inevitabilmente influenzerà il disegno e la creatività. Faranno tutto le macchine? Assolutamente no. Dobbiamo cavalcare la tecnologia senza “snaturare” l’azienda, mantenendo ad esempio gli artisti umani per creare quell’unicum che l’AI non può replicare. Oppure mantenendo, accanto al digitale, una quota di tavoli per la stampa tradizionale, l’eccellenza è la cifra di Ratti ed è ciò che una parte dei clienti chiede.

Parlando di occupazione, come si attraggono i giovani in un settore che percepiscono come in crisi o in contrazione?

È una delle sfide su cui ci stiamo concentrando maggiormente, soprattutto quando i media riportano numeri negativi del distretto. Dobbiamo dimostrare che il nostro settore è vitale e sfidante. Oggi del resto sono necessarie competenze tecniche diverse dal passato, non più solo manualità artigianale, ma padronanza delle tecnologie e degli strumenti digitali. Un ragazzo che si iscrive oggi a un ciclo di formazione nel tessile ha ancora un futuro, a patto che sia disposto a essere parte di questo mix tra esperienza e innovazione. Certo, a livello di retribuzione è difficile reggere il confronto con la Svizzera, sottolineo però quanto la nostra azienda, come altre del distretto, offrano opportunità di crescita e di welfare tutt’altro che trascurabili.

Lei ha sottolineato l’importanza della managerializzazione. Cosa intende e perché è così cruciale oggi per le aziende del settore?

La managerializzazione è fondamentale per garantire la continuità aziendale e per non dipendere da una singola persona, come accadeva in passato attraverso la figura dell’imprenditore-proprietario. Avere una struttura manageriale preparata è vitale per la resilienza dell’impresa, specialmente in una fase di profondo cambiamento del mercato come l’attuale. Ratti è ben preparata in questo senso, con una pluralità di soggetti decisionali. Questo ci rende meno vulnerabili e più reattivi rispetto ai cambiamenti.

Nonostante le difficoltà attuali, il settore moda-tessile italiano rimane un’eccellenza con oltre 90 miliardi di fatturato e 500.000 occupati. Cosa può fare la politica per tutelare questo patrimonio?

L’industria italiana della moda è un settore trainante, con una bilancia dei pagamenti fortemente positiva e un export che supera il 65% del fatturato. L’appello è che la politica moltiplichi il valore strategico della manifattura sostenendola non solo con aiuti, ma creando le condizioni per la sua attrattività e il suo rilancio.

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