Che cosa significa essere italiani

Numero monografico de “L’Ordine” dedicato all’8 settembre 1943. Lo apriamo con la riflessione di un giovane scrittore: oggi l’italianità è ridotta a un brand commerciale, il risveglio delle coscienze che seguì all’armistizio può aiutarci a ritrovare un senso di appartenenza

«L’hanno saputo i tedeschi prima di noi. E l’ultimo ordine che abbiamo ricevuto è stato quello di far cantare i militari durante la marcia». Basterebbe questa frase, pronunciata dal Colonnello di “Tutti a casa” di Comencini, a riassumere il disorientamento dei militari italiani, quell’8 settembre 1943. Nel film, Alberto Sordi si dà alla macchia dopo aver assistito allo sfaldamento dell’esercito. Con lui, sbandati, fuggiaschi, giovani che cercano di tornare vivi a casa. Un viaggio accidentato in un’Italia collassata dopo la fumosa comunicazione della fuga delle alte cariche. Sullo sfondo, abitazioni divelte su cui qualcuno ha scritto «senza casa possiamo vivere, senza patria no».

“Spaesamento” sembrerebbe la parola più adatta a descrivere la vertigine di quei giorni. Il capogiro di chi si ritrova improvvisamente di fronte allo sgretolamento delle istituzioni e dei codici che, fino a poco prima, avevano guidato il suo Paese. Ottant’anni dopo, l’8 settembre è ricordato come l’emblema della svolta: una nazione condotta allo sbando dal fascismo, che sarà riscattata dalla Resistenza.

Tuttavia, le dinamiche dei fatidici “quarantacinque giorni” tra la deposizione di Mussolini e la firma dell’Armistizio, il ricordo delle settimane confuse che seguirono, in cui presero vita i nuclei partigiani e si costituì la Repubblica di Salò, non possono essere limitati alla dicotomia fascismo e antifascismo. La scelta delle parti, il coraggio di combattere o la decisione di disertare, fuggono ogni semplificazione manichea.

Una seconda Caporetto

Se è vero che, durante quella seconda Caporetto, l’Italia delle istituzioni si dimostrò codarda e impreparata, va anche detto che non mancarono atti di eroismo. Gli eccidi di Cefalonia e Corfù, i soldati che difesero la Maddalena, i militari e civili che morirono per impedire l’accesso dei tedeschi a Roma... Gli esempi sarebbero molti e la retorica del “tutti a casa” offende la loro memoria. Senza ordini precisi, con i governanti in fuga, migliaia di uomini e donne si assunsero la responsabilità di difendere un’idea chiamata “Italia”.

Ottant’anni dopo

Che ne è stato di quel sentimento di identità nazionale, così estraneo alla mia generazione? Affievolitosi nella ripartizione della politica, adattatosi al respiro comunitario dell’Unione Europea, oggi riverbera quasi esclusivamente nel brand del made in Italy, nel calcio - quando va bene - o, peggio, viene strumentalizzato da qualche nostalgico del Ventennio per ribadire un astruso concetto di “italianità”.

Ma cosa significa essere italiani in un mondo sempre più globale, in cui le identità nazionali rischiano di sopravvivere solo come stereotipo, le tradizioni come modelli di business? E quale senso ha esserlo oggi, sbattuti tra venti sovranisti, rappresentanti dello Stato che collezionano cimeli fascisti, Stati invasori e Stati invasi, in un macabro riecheggiare degli eventi?

Credo che la zona d’ombra tra la destituzione di Mussolini e l’8 settembre contenga molte risposte.

In un passaggio de “Il Conformista” di Moravia, la gente scende in piazza a distruggere i simboli del fascismo. Un uomo abbatte un busto del duce che crede di bronzo, scoprendolo di “volgare creta”.

Mentre la politica internazionale lavorava ad armistizi, doppiogiochismi, riarmi, i cittadini accorrevano a festeggiare per le città la caduta del fascismo. Milano completamente imbandierata, Torino ripulita dei fasci littori, a Roma inni risorgimentali per tutta la notte, le targhe “Corso del Littorio” sostituite con “Corso Matteotti”. Il “Corriere” titolava “L’Italia ha ritrovato se stessa”. E gli uomini e le donne, che avevano appena cancellato con un colpo di spugna un ventennio di colpe, inneggiavano al Re e al nuovo governo Badoglio, senza immaginare che presto si sarebbero rivelati anch’essi di “volgare creta”.

Non nelle istituzioni traballanti ma nella possibilità di un Paese libero, nato prima del Duce e sopravvissuto a vent’anni divoranti, in grado di annichilire coscienze e volontà: qui si ritrova il sentimento che irradia dai ricordi di quei giorni.

Una scoperta inattesa, racconta Natalia Ginzburg, quella della parola “patria” senza aggettivi fascisti, improvvisamente concreta e reale, composta da piazze da difendere, dai propri cari, dalla propria infanzia.

Questo risveglio collettivo interroga il nostro presente ogni volta che ci sentiamo sradicati, impossibilitati a riconoscerci nell’istantanea del Paese.

Ci fissa dagli occhi in bianco e nero delle fotografie di quei giorni: la speranza di un gruppo di giovani con il cartello “w l’Italia”; un uomo fiero, sul piolo più alto della scala, che abbatte un bassorilievo di Mussolini; una donna anziana, in nero, che cammina sulle macerie.

Quegli uomini e quelle donne sembrano guardare avanti, ignari della lotta sanguinaria che li attende, delle storture ideologiche e delle vocazioni revisioniste che verranno, degli interessi di partito, degli anni di boom e di quelli di piombo, con uno sguardo che difficilmente ritroveremo. Quello di chi, attraversando la sua patria dissolta, non si sente spaesato perché sta costruendo un’Italia libera, per tutti.

Con l’appiglio a questo paradosso, ritrovarsi nella rovina, riscoprire il proprio Paese quando è in ginocchio, spogliato da ogni retorica, nell’oscurità polverosa dell’8 settembre 1943 balena il lampo di un irriducibile senso di appartenenza. E la parola “patria” sembra un po’ meno astratta, meno lontana.

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