FLAUBERT e la politica
TEATRINO DEL NIENTE

La passione non è una vocazione e conduce spesso a giudizi erronei. La passione per il teatro, ad esempio, ha portato Gustave Flaubert a scrivere un testo scenico -l’unico pubblicato in vita dall’autore di “Madame Bovary”- che all’epoca venne ingiustamente stroncato dalla critica, colpevolmente ignorato dal pubblico e infine sconfessato dallo stesso Flaubert, che dopo quattro repliche lo fece togliere dal programma del “Théâtre du Vaudeville” di Parigi, dove peraltro era approdato tra mille fatiche e difficoltà.

Pessimo giudice di se stesso, Flaubert aveva prestato troppo ascolto all’opinione della critica e del pubblico, convincendosi che il testo avesse oggettivamente poco valore. È una convinzione ancora oggi molto diffusa, al punto che l’opera in questione è poco letta e spesso assente dalle scelte antologiche degli scritti di Flaubert, perché si ritiene che non possa figurare accanto ai grandi capolavori narrativi, scritti per vocazione e non per semplice passione.

Dal “Garçon” a Rousselin

Si tratta di una convinzione profondamente sbagliata, perché il testo teatrale “Il candidato”, una commedia in quattro atti portata sulle scene nel 1874 e pubblicata in volume nello stesso anno, non è certo paragonabile agli esiti più alti e artisticamente compiuti della sua narrativa, ma rimane un’opera di assoluto valore, che rientra a pieno titolo e con un rilievo tutt’altro che secondario nell’enciclopedia della “bêtise”, la stupidità umana, alla quale Flaubert ha lavorato negli ultimi anni di vita. Non bisogna peraltro dimenticare che l’opera che ha accompagnato Flaubert per 25 anni, “La tentazione di Sant’Antonio”, definita da un lettore come Baudelaire «la stanza segreta del suo spirito», era pensata originariamente per il teatro. La prima stesura risale al 1849, la seconda (letta da Baudelaire) è del 1856, mentre la terza e definitiva versione venne pubblicata in volume nel 1874, lo stesso anno de “Il candidato”. Flaubert l’aveva definita «l’opera di tutta la mia vita», perché contiene e spiega tutti i motivi sviluppati nelle opere narrative.

Il teatro e i romanzi

Si ha inoltre la tendenza a derivare il difficile rapporto tra Flaubert e il teatro da una considerazione contenuta in una lettera a George Sand («Quelle frasette brevi, quel continuo scoppiettio mi irritano»), che però si riferisce alla tecnica e alla scrittura teatrale, non al teatro come forma espressiva. La passione di Flaubert per il teatro precede infatti la vocazione di romanziere e risale addirittura alla prima gioventù, per la precisione al 1836, quando il quindicenne Gustave aveva trasformato la sala da biliardo della casa di famiglia a Rouen in un “Hotel des Farces”, nel quale venivano rappresentate delle commedie burlesche che avevano come protagonista il personaggio del “Garçon”.

Di vedute limitate, abituato a pensare e parlare per luoghi comuni, il “Garçon” è la prima grande creazione letteraria di Flaubert nonché la prima incarnazione della “bêtise”, messa poi alla berlina nel farmacista Homais in “Madame Bovary” e nei due copisti Bouvard e Pécuchet dell’omonimo romanzo. L’ineffabile protagonista de “Il candidato”, il ricco possidente Rousselin, ridicolo e patetico “malgré lui”, è l’espressione della “bêtise” nella politica.

Uno snodo fondamentale del lungo percorso che ha condotto Flaubert dall’“Hotel des Farces” a “Il candidato”, dal “Garçon” a Rousselin, è costituito dal viaggio in Italia compiuto dal ventiquattrenne Gustave nella primavera del 1845. Non solo perché a Genova, nelle sale di Palazzo Balbi, osservando l’omonimo dipinto di Bruegel, ebbe la prima idea de “La tentazione di Sant’Antonio”, ma anche perché la visita ai luoghi di Rousseau e Voltaire, durante il ritorno in Francia attraverso la Svizzera, lo mise concretamente in contatto con le atmosfere e gli orizzonti dei due autori che hanno modellato la sua concezione della politica.

Inizialmente vicino a Rousseau (uno dei miti della sua giovinezza insieme a Byron e Goethe), Flaubert tenderà via via ad assumere posizioni molto simili a quelle di Voltaire (l’idea utopica di una società laica, pluralistica e avviata verso una crescita equilibrata e razionale) nella valutazione complessiva delle questioni politiche e sociali. Sono molto rivelatrici, al proposito, due lettere inviate alla già ricordata “Maman” Sand, sua amica e confidente, nel dicembre 1867 («Se si fosse presa la grande strada di Voltaire, se si fosse pensato un po’ di più alla Giustizia invece che predicare tanto la Fraternità, se infine si fosse messa la Testa al di sopra delle Trippe, non saremmo giunti a questo punto») e negli ultimi mesi del 1871, al termine della guerra franco-prussiana e dell’esperienza della Comune: «Il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletario al livello dell’idiozia del borghese. Il sogno è in parte realizzato! Legge gli stessi giornali e ha le stesse passioni».

Nel mezzo, c’è una frase contenuta in una lettera del giugno 1869 («La politica è morta!») che aiuta a capire gli ambienti, le suggestioni e i temi de “Il candidato”. La politica è morta perché ormai tutto è farsa e “bêtise”, quindi anche la politica è farsa e “bêtise”, un miserevole teatrino dove va in scena l’eterno ma sempre nuovo cuore di tenebra fatto di ambizione, sordido protagonismo, smania di potere e denaro, volontà di dominio e sopraffazione.

Rousselin vuole infatti realizzare il sogno di una vita, candidarsi al parlamento, e per farsi eleggere non esita a passare da un partito all’altro, dai conservatori ai liberali, promettendo favori in tutti gli ambiti (trasporti, scuola, eliminazione delle imposte, sostegno all’agricoltura) fino a immolare la figlia, che viene data in sposa al rampollo di un conte decaduto, solo ed unicamente per ottenere i sessantaquattro voti necessari all’elezione. Ma in realtà tutti i candidati, in particolare gli opportunisti Gruchet e Murel, sono spinti da ambizioni private ed egoistiche, mentre gli elettori, da parte loro, cercano apertamente uno scambio clientelare e alla fine votano il candidato che promette il maggior numero di benefici personali, indipendentemente da qualsiasi idealità e considerazione sul “bene pubblico”, che in fondo nessuno sa cosa sia (e soprattutto non interessa a nessuno). È la politica senza progettualità e utopia, mera gestione del potere, vile e protervo affarismo, nient’altro che un «basso sfogo dei mediocri», come scriverà qualche anno dopo Huysmans in un celebre passo di “Controcorrente”.

Può darsi insomma che il romanziere Flaubert non sapesse scrivere per il teatro, ma nel caso de “Il candidato” il difetto si rivela un pregio, perché i quattro atti della commedia (che in ultima analisi è una tragedia farsesca) sono teatro senza teatralità, esattamente come i grandi romanzi, “Madame Bovary” e “L’educazione sentimentale”, sono libri “sul niente”, una narrazione risolta nell’impersonalità della narrazione stessa. “Il candidato”, nello specifico, raccoglie e distilla nello spazio del palcoscenico i luoghi comuni del «basso sfogo dei mediocri» e si trasforma, battuta dopo battuta, in un testo teatrale “sul niente” della politica. Il momento più esilarante è costituito dalla scena iniziale del terzo atto, con Rousselin che improvvisa un surreale (ma neanche troppo) monologo che è tutto un luogo comune, dal sospiroso richiamo ai «valori dell’Ottantanove» («Ah, l’Ottantanove!») alle immancabili «virtù del popolo», dai «privilegi imprescrittibili» alla necessità di «schiacciare la testa all’Idra dell’Anarchia», dallo «sviluppo del benessere tramite l’ascesa graduale delle classi medie» all’opportunità di utilizzare i sostantivi in -ismo («parlamentarismo, oscurantismo»), perché «fanno sempre un grande effetto».

“Il candidato” è quindi un testo da rileggere e rivalutare, non solo per la sua evidente attualità, ma anche per la sua verità più profonda, individuata con estrema precisione dal “figlioccio” di Flaubert e ideale continuatore della sua opera, Guy de Maupassant: «Beati coloro che non si accorgono, con sterminato ribrezzo, che niente cambia, niente passa e tutto stanca». In particolare, le cose morte ormai da tempo come “questa” politica, che il genio profetico di Flaubert ha sintetizzato in uno strepitoso e realistico scambio di battute tra Gruchet e Murel nella sesta scena del secondo atto: «Ma non mi avevate detto che Rousselin è un perfetto imbecille?»; «Certo, ma ciò non impedisce affatto di essere eletti».

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