Il bonus migliore è abbassare le tasse

Ridurre le aliquote e le iniziative fiscali dello Stato favorisce l’economia più degli incentivi. L’esempio dell’Irlanda che ha superato l’Italia nella classifica che misura il Pil pro capite

Carlo Lottieri

Sembra (forse) destinata a chiudersi la lunga stagione dei bonus, che ha avuto il suo culmine durante i governi guidati da Giuseppe Conte: quando i Cinquestelle avevano in Parlamento un gran numero di eletti. In quella fase molte attività private furono “stimolate” da finanziamenti pubblici, con il risultato che si poteva rifare la facciata del palazzo oppure comprare un televisore facendosi finanziare dai contribuenti.

Quelle politiche oggi sono molto contestate. Che ragione c’è, in effetti, di tassare con la mano destra i contribuenti per poi, con la mano sinistra, elargire loro sussidi? Ovviamente l’azione pubblica tende sempre a enfatizzare la spesa e celare il prelievo, così che un politico astuto può quasi far credere che i soldi vengano dal cielo, come la manna nella Bibbia, o che comunque escano dalle tasche di altri: i più ricchi e privilegiati, in particolare. Il populismo dei bonus così nasceva dall’idea che si aiutava la gente comune con un prelievo che penalizzava milionari, furbetti e altre categorie poco amate.

Oltre a ciò, con i finanziamenti di Stato si è pensato di condurre una sorta di piano volto a rilanciare l’economia. L’idea è che gli attori economici, si tratti delle famiglie come delle imprese, siano piuttosto sprovveduti, mentre governanti e burocrati sappiano quale è il nostro bene. Di conseguenza, ecco perché a qualcuno è parso necessario spingere in questa o quella direzione.

L’ereditò di Keynes

Neppure va dimenticato quanto la lezione di John Maynard Keynes continui a pesare. Secondo l’economista inglese, nel momento in cui l’apparato pubblico prende i nostri soldi e li spende, l’intera economia ne trarrebbe beneficio. Il motivo sarebbe nel fatto che quanti sono pagati dallo Stato con quei soldi acquisteranno più scarpe, e i dipendenti dei calzaturifici consumeranno più frutta e verdura, mentre i coltivatori potranno acquistare più vestiti, e via dicendo.

Keynes era persuaso che esistesse un vero e proprio “moltiplicatore”, e cioè che le risorse utilizzate dagli uffici statali potessero aumentare, grazie all’intermediazione politica. Tassare e spendere, in altri termini, favorirebbe un migliore utilizzo del capitale, che se lasciato in mano ai privati sarebbe “sottoutilizzato”. Ovviamente questa vecchia tesi dirigista si espone a parecchie critiche, poiché non è scontato che le famiglie e le imprese siano necessariamente troppo orientate a risparmiare.

Sistema barocco e complesso

Quello che in questi anni abbiamo imparato è che l’azione pubblica induce a un pessimo utilizzo della ricchezza, dato che - in presenza di finanziamenti statali - ognuno è portato a prendere iniziative che altrimenti non assumerebbe. Oltre a ciò, il sistema dei bonus è quanto mai barocco e complesso, comportando enormi costi burocratici e permettendo una serie di abusi, che a loro volta hanno finito per moltiplicare i controlli e rendere il tutto sempre più opaco.

La cosa migliore, anche se pochi sono disposti ad ammetterlo, sarebbe che il ceto politico facesse poco o nulla. In fondo, un’economia dinamica ha solo da avvantaggiarsi da basse imposte, un numero limitato di regole e nessun tipo d’interferenza politico-burocratica. È però difficile immaginare che il ceto politico rinunci a interpretare il ruolo della “mosca cocchiera”.

Per questa ragione, un sano realismo dovrebbe spingere le persone di buon senso a orientare gli uomini di governo verso politiche economiche di basso impatto e volte a favorire un processo di liberalizzazione del mercato, che aiuti a contenere spese e prelievo.

In questo senso, una lezione formidabile viene dall’Irlanda, che non soltanto da alcuni decenni vanta un Pil pro capite ben superiore a quello italiano (dove un tempo, invece, il rapporto era rovesciato), ma che soprattutto ha costruito la propria fortuna anche grazie a politiche volte a creare aree a limitata tassazione (le note “no tax area”).

Più di quarant’anni fa, nella Shannon Free Zone - non distante dall’aeroporto di Dublino - fu creato un parco industriale dove l’aliquota tributaria fu fissata al 10%. Non soltanto molte multinazionali deciso di collocarsi lì, ma in seguito aliquote analoghe sono state introdotte in altri settori e in altre aree geografiche. In generale, l’intero sistema tributario fu progressivamente investito da queste logiche, se si considera che un’imposta del 12,5% fu addirittura applicata a tutti i redditi commerciali, diventando l’aliquota standard a metà Novanta e risultando un fattore cruciale dello sviluppo di quella che oggi è chiamata la “tigre celtica”.

Il modello che l’Italia ha adottato in questi anni, moltiplicando i bonus, implica sempre più Stato: poiché in quel quadro sono i politici a decidere quel che si deve fare. Lo schema alternativo, invece, suggerisce un percorso di riduzione del potere pubblico, cominciando dalle aree più disagiate (da noi bisognerebbe partire da qualche area del Sud, naturalmente) per poi estendersi alle altre. Esattamente com’è successo in Irlanda.

Mettere in concorrenza i territori

La strategia suggerita presenta due vantaggi. Innanzi tutto, non prende soldi ad alcuni (i più deboli politicamente) per consegnarli ad altri (i più forti), ma invece si limita a lasciare maggiori risorse in tasca di chi le ha prodotte. Oltre a ciò, individua una prospettiva evolutiva che intende mettere in concorrenza le varie aree territoriali, in una prospettiva (lo si spera) che sappia favorire sempre più anche l’autogoverno federale di ogni comunità.

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