Il cammino come scoperta: si comincia da bambini

Vi proponiamo il primo di una serie di racconti scritti da Stefano Valenti per “L’Ordine” sulla passeggiata come pratica letteraria. Questo, autobiografico, è ambientato in Valtellina

Quel giorno i colori, che diventavano più vividi nel muovere al di sotto della luce radente, ci facevano comprendere che l’autunno era arrivato al suo culmine lungo le rive del Vallone, il torrente di Traona che discende in verticale dai ripidissimi versanti estremi della costiera dei Cech e che nei secoli ha rappresentato per questo paese una risorsa e una minaccia.

Cominciai a percorrere quei sentieri, che formano un anello di circa cinque chilometri in bassa Valtellina, a dieci anni, insieme a mio padre il quale li attraversava fin da bambino e, in quegli anni difficili della mia infanzia, per fare evaporare, camminando, l’ansia. Ripercorrevamo quel cammino per concederci una tregua e, al contempo, alimentarci nel raccogliere funghi che finivano con l’occupare, distesi a seccare su fogli di giornale, il tavolo della terrazza dei nonni.

Prendemmo quel giorno la deviazione che indica l’inizio della strada per Mello e salimmo per un tratto, fin quando arrivammo alla deviazione per la chiesa parrocchiale di Sant’Alessandro. Davanti a noi il ripido solco del Vallone di San Giovanni e un sentierino che risaliva con qualche tornante una selva di castagni. In breve fummo fuori dalla selva, sul filo di un dosso coperto da terrazzamenti che domina Traona.

L’artista operaio

Mio padre era un artista e le sue tele rappresentavano un espressionismo scontroso. All’inizio degli anni Cinquanta, disceso dalla Valtellina alle acciaierie Breda di Sesto San Giovanni, era entrato in fabbrica in un lacerante conflitto con una vocazione artistica vissuta come una liberazione e, qualche anno dopo, abbandonata la fabbrica, e trafitto dalle persistenti difficoltà economiche, era tornato insieme a me e a mia madre a vivere in quel paese della Valtellina in cui era nato per fare della pittura un mondo.

Quel giorno mio padre parlava di mia madre e il pensiero di mia madre gli procurava una costante sensazione di disagio. Nel restarle lontano, nel corso di quelle camminate, diceva mio padre, comprendeva quanto importante fosse la distanza tra di loro. Con te è tutto più facile, disse mio padre, con tua madre invece ogni cosa diventa difficile. Viviamo insieme da tanto tempo e non ci conosciamo, concluse. Ma per me, a quel tempo, nel quale più che essere figlio dei miei genitori ero figlio del paesaggio circostante, le parole di mio padre non avevano importanza. Ogni tanto, pensai, mio padre ha bisogno di una persona che lo ascolti.

Nelle nostre camminate accadeva incontrassimo persone e la buona memoria di mio padre gli consentiva di chiamare tutti per nome. Quando gli pareva che non avessi ben capito chi fosse la persona con la quale aveva scambiato un saluto me ne dava una breve descrizione.

Mio padre dipingeva giorno e notte, dipingeva e poi distruggeva quello che aveva dipinto, dipingeva e poi distruggeva di nuovo, avvicinandosi così alla propria meta. In seguito, una volta raggiunto il compimento di quella sua occupazione, disse una volta mio padre, avrebbe abbandonato la Valtellina, se ne sarebbe andato. Le lunghe passeggiate di mio padre, nell’addentrarsi sempre più nei boschi, occupavano grande parte del tempo sottratto alla pittura.

Il colpo d’occhio su Traona alle nostre spalle e sull’opposto versante orobico, incorniciato dal corno del monte Legnone, mi dimostrava una ragione incomprensibile quel giorno.

Ben presto, superato una valletta, raggiungemmo un gruppo di abitazioni. Ci fermammo davanti a una di quelle case abbandonate e vi guardammo dentro come a guardare dentro noi stessi. Infine mio padre mi invitò a seguirlo e percorrendo un sentiero infossato ci addentrammo in quel recesso del bosco nel quale non ero mai stato e dove, disse mio padre, da ragazzo trovava una quantità di funghi maggiore di quanta ne avesse mai trovata e così ogni volta che vi era tornato negli anni.

Il sentiero si snodava al di sotto di una volta di alberi e sul terreno di foglie secche, gialle, rosse, brune, erano, nascosti nell’ombra, funghi dalla forma perfetta. L’odore del sottobosco umido riempiva le narici e, di tanto in tanto, un taglio di luce fredda apriva d’improvviso l’arco di rami e accendeva di verde smeraldo le foglie.

Il castello e il lago

Non ci fermammo quel giorno e proseguimmo per un tratto la strada in salita, fin quando arrivammo alla deviazione per il Castello di Domofole, e, alle spalle del castello, distinguemmo la parte alta del Vallone di San Giovanni disegnarsi al di sotto della cima del monte Sciesa. Nel guardare a valle, raggiungemmo con lo sguardo la parte terminale del lago di Como. E, ridiscesi dal poggio, incrociammo un sentiero che risaliva diritto nella boscaglia. Lo seguimmo e, al termine di un ripido tratto, approdammo alla pista sterrata che congiunge Mello a San Giovanni di Bioggio. E, a poca distanza, incontrammo il tempietto di Sant’Antonio, sulla cui facciata è posta la lapide in ricordo dei partigiani caduti nella battaglia di Mello del 1 ottobre 1944.

Raggiungemmo la chiesa di San Giovanni di Bioggio e, nel portarci più in alto, verso il cuore dell’ombrosa vallata, fu l’aprirsi del bosco e, infine, del Vallone. Non erano roccioni, lì, ma il piccolo invaso di una centralina, e, sul lato opposto del Vallone, il sentiero che discendeva deciso.

Quel tardo pomeriggio il cielo annunciava un’antica rabbia e nel discendere in fretta dalla montagna, lungo un sentiero angusto, incontrammo tuoni e fulmini che laceravano il firmamento e faticammo a ritrovare la strada di casa nei sentieri tutti uguali, nel fango fin sulle caviglie, nel vento che ci buttava acqua addosso. Rigagnoli d’acqua correvano tra rami secchi e pietre scivolose ricoperte di muschio. Continuammo a discendere il sentiero fin dentro la selva di castagni sul lato occidentale del poggio di San Giovanni, e, terminato il sentiero, percorremmo le baite di Pianezzo e infine ci affacciammo di nuovo a Traona, proprio a monte della chiesa di Sant’Alessandro.

Nell’uscire in radura fummo richiamati dal suono delle campane. Le luci di penombra della sera si aprirono in uno squarcio acceso. Fu l’ultima volta che camminai con mio padre.

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