Il miracolo che può ripetersi ancora

Il racconto di Natale scritto per “L’Ordine” da Silvia Montemurro. Protagonista una giornalista di lungo corso che brilla per disincanto, ma si ritrova testimone di una vigilia inaspettata e memorabile

Non credo nelle coincidenze. Ma non sono nemmeno tanto stupida da vedere il divino nella miseria umana.

Eppure eccomi qui, carta ingiallita e inchiostro, come ai vecchi tempi, a raccontarvi la mia storia di Natale. Quando mi hanno chiamato dalla redazione ho storto il naso: io, una storia di Natale?

Il direttore è stato molto onesto, mi ha detto: «Lia, è il tuo turno. In quanto collaboratrice più anziana, abbiamo pensato che sia un modo per darti ancora spazio, senza farti occupare delle luminarie troppo costose in viale Diaz. Dammi retta, un pezzo sul Natale ti aiuterà ad avere ancora un minimo di credibilità»

E io che avevo scelto di fare la giornalista perché più si invecchia più si ha una certa autorità.

Non sono credente, metto subito le mani avanti, prima che qualcuno inizi a pensare che dopo i sessanta si viene illuminati da non so che luce divina. Vi assicuro che dopo i sessanta si vede tutto benissimo, proprio come prima.

Ma ecco, da brava giornalista, alla vigilia di questo Natale, mi accingo a raccontarvi i fatti così come sono accaduti, lasciando a voi trarre le conclusioni che più vi aggradano.

Qualche giorno fa il freddo avvolgeva più del solito il nostro piccolo villaggio come un mantello gelido (permettetemi qualche metafora, qua e là, per dare il senso di un racconto con atmosfera natalizia, così il mio superiore è contento). Io ero assisa nella mia umile dimora, mentre la penna danzava sulla carta ingiallita. Cercavo ispirazione per questo racconto, proprio quello che state leggendo in questo momento. Era il momento dell’anno in cui il cuore doveva essere in festa, ma la solitudine mi pesava come un’ombra persistente. Non sto qui a raccontarvi come per chi ha perso i suoi cari ed è a casa da solo, la vigilia di Natale possa essere il momento più triste dell’anno, lo sapete benissimo per conto vostro, giusto? Ecco, appunto.

Il mio lavoro, a tempo perso, ormai, presso il quotidiano locale, richiedeva che io creassi una storia natalizia, e così mi trovai ad agognare l’ispirazione mentre il vento ululava fuori dalla finestra. Fu allora che il destino decise di tessere un racconto nelle vie tortuose del nostro villaggio.

Stavo appollaiata alla finestra, postazione che mi permette solitamente di vedere tutti voi, miei compaesani, e salutarvi con la mano, o fingere di essere indaffarata a scrivere, quando vidi una giovane ragazza, avvolta in un cappotto di tre taglie più grandi di lei, il viso scuro e gli occhi tristi. Sembrava aspettasse qualcuno. Quando si voltò di profilo, notai il rigonfiamento che nascondeva malamente sotto il cappotto e capii che era incinta. I passanti non si curavano di lei, che faceva avanti e indietro per il viottolo, dando giusto un’occhiata distratta alle vetrine scintillanti.

Decisi che per quella sera non avrei scritto nulla, quindi misi il cappotto, feci il tè e mi apprestai a portarle una tazza fumante.

Quando mi vide non tentò di scappare, accolse il tè con gratitudine, sebbene dalla sua bocca non uscì neanche una parola. Aveva occhi scuri e profondi, di quelli che quando ci guardi dentro vedi tutta la sofferenza di una giovane abbandonata a se stessa. Le chiesi se volesse salire da me, ma fece cenno di no con la testa. Mi fece capire che stava aspettando qualcuno.

Quando vidi Fortunato, la nostra cara mascotte del paese, non mi stupii. Lo conoscete tutti, no? E’ quel meticcio che è scappato così tante volte dal canile e che alla fine tutta la comunità ha accettato di adottare. Proprio lui, stava aspettando. Si chinò a coccolarlo, divise con lui un pezzo di formaggio che aveva in tasca.

Stavo per chiederle da dove venisse, quando da dietro le spalle sentii la voce del Raffaele.

Ora, qualcuno mi dirà che potrei beccarmi una denuncia raccontando i fatti altrui, ma vi assicuro che Raffaele, nonostante sia burbero ancor più di me, mi ha dato l’autorizzazione a scrivere il suo nome e a raccontare quello che è successo parola per parola, anche se questo di certo non gli fa onore.

«Eccoti qui», disse il Raffaele, dovete immaginare che lo disse in tono severo, così severo che quando mi voltai di nuovo verso la ragazza, era sparita.

«Ma ti sembra il caso di urlare alla gente?», chiesi.

«Non ti impicciare, Lia», mi rispose «non sai quello che è successo»

Voi lo sapete, il Raffaele ha un brutto carattere, ma non lo avevo mai visto così alterato.

«Sono giorni che quella ragazza si aggira nella mia tenuta», mi spiegò «e ha sganciato più volte la corda del recinto di Artù»

Per chi non lo sapesse, Artù è l’asinello che pascola accanto alla pista ciclabile, di proprietà del nostro Raffaele.

«Voleva farlo scappare?», chiesi.

«Voleva rubarlo»

Scoppiai a ridere.

«E cosa se ne fa?»

Lui scosse la testa.

«Non mi credi eh? Voleva portarmi via Artù. Le ho dato le uova, le ho dato il pane, il caffè. Non mi ha mai detto grazie»

«Perché non parla, è spaventata. Sai dove abita?»

«Nel campo rom»

Abbassai lo sguardo. Era difficile che una ragazza sola si allontanasse da quel campo. Ma il fatto che fosse incinta mi faceva dedurre che qualcosa, all’interno della comunità, fosse andato storto e lei fosse rimasta da sola.

Salutai Raffaele e mi accorsi che anche Fortunato era sparito.

Rientrai in casa e mi misi a sfaccendare.

Due giorni più tardi dovevo consegnare questo articolo e non avevo ancora scritto una riga. Raffaele aveva messo in giro la voce di non fidarsi della ragazza rom e quando bussò alla mia porta, sbuffai. Volevo concentrarmi per consegnare il pezzo, non desideravo altre seccature. «Artù è sparito», mi disse, senza neanche salutarmi «come volevasi dimostrare»

«Ne sei certo?», chiesi.

Intanto mi infilai il cappotto, rassegnata.

«Ti accompagno alla polizia»

Vi risparmio i dettagli della dichiarazione di smarrimento, che ovviamente si tramutò subito in denuncia a carico di ignoti.

Raffaele era disperato per il suo asinello. Quando si diventa vecchi, io posso dirlo con certezza, ci si affeziona a tutto. Alle finestre, ai cantieri in costruzione, ai propri animali domestici.

Facemmo il giro del paese, suonammo a tutti voi, per sapere se avevate visto una ragazza con un asino e forse con Fortunato. Ma nessuno di voi ebbe una risposta.

Ora, tutti sanno che appena si lascia il sentiero principale sopra al nostro villaggio, ci sono delle stalle abbandonate. Proposi, con un certo scetticismo, di andare anche lì, a dare una controllata. Raffaelle alzò le spalle. Noi vecchi i giorni prima di Natale non siamo tanto impegnati come voi. Quindi ci incamminammo e io notai, mio malgrado, le luci alle vostre finestre, che sembravano tracciare una scia verso la direzione che avevamo intrapreso.

Era quasi sera. Mi ero dimenticata del mio pezzo sul Natale, volevo solo ritrovare Artù e vedere Raffaele di nuovo burbero e sereno.

Scorgemmo subito la luce in una delle stalle.

«Disgraziata», mormorò Raffaele. Ma io lo zittii, perché avvertimmo il pianto di un bambino.

«Chiama un dottore», gli raccomandai «e aspettami qui, che sono cose da donne»

Vorrei raccontarvi di come portarono via la ragazza, che scoprii chiamarsi Maria, di come Fortunato volle salire con lei sull’ambulanza, di come Raffaele si riprese il suo Artù e mi invitò alla cena della vigilia a casa sua.

Ma questa è una storia di Natale.

Quindi vi lascerò con l’immagine che vidi quando mi affacciai alla porta della stalla: un cane, un asino, a scaldare il rifugio improvvisato di una donna che nessuno era riuscito ad aiutare e che teneva in braccio un bambino. Questa è la storia vera del mio Natale improvvisato, la storia di come il miracolo può accadere ancora, quando il cuore si apre alla gentilezza. Basta saper guardare da una finestra affacciata sul mondo. Non dimenticherò tanto presto il calore di quella scena, quel calore che devono aver provato tante persone, migliaia di anni fa, quando pare sia successa una cosa simile, in un posto lontano. Lo stesso calore che prova un genitore quando la sua creatura viene alla luce, lo stesso che sente il nonno quando tiene per mano la nipotina per la prima volta, quel calore che cerchiamo di ricreare accendendo candele, intonando canti, ascoltando il suono delle campane a festa.

Buon Natale, dalla vostra attempata, commossa, miscredente collaboratrice a tempo perso
Lia.

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