Il romanzo italiano al cinema

«Secondo me i privilegiati sono quelli che sia nel senso creativo, sia nel senso conoscitivo hanno a che fare con l’arte» (Alberto Moravia).

Lo status di privilegiato, quello di artista ha a che fare con l’arte pura. Esiste anche l’altro lato del privilegio quello che coniuga arte e artigianato, legame che definisce le affinità elettive tra lo scrittore e il cinema, arte e artigianato, appunto. Andrè Bazin in “Che cosa è il cinema?” si poneva l’esiziale domanda: esiste il cinema puro?, e - nella risposta - sottolineava la giovane età del grande schermo rispetto alla letteratura, musica, drammaturgia delineando come tra esse non ci fosse alcuna concorrenza ma solo una naturale evoluzione del linguaggio. La penna e la macchina da presa (più in generale lo specifico filmico) si completano l’un l’altra.

Basta leggere alcuni passaggi dei romanzi di Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Dino Buzzati, Italo Svevo (solo per fare alcuni nomi) e ci si rende conto che sono già cinema. Il più letterario dei registi italiani, Mauro Bolognini, tra gli altri, realizza “La notte brava” (1959) da Pasolini, “Il bell’Antonio” (1960) da Vitaliano Brancati, “Senilità” (1962) da Svevo, “Agostino” (1962) da Moravia, “L’assoluto naturale” (1969) da Goffredo Parise, “Per le antiche scale” (1975) da Mario Tobino.

Individui alla deriva

Anche alla luce del percorso di Bolognini il romanzo italiano, quello novecentesco, può essere riassunto nella formula dell’individuo alla deriva in balia (la zattera di Gericault) delle bufere della storia, intento nel faticoso e contraddittorio percorso di formazione di identità e coscienza che, da feudale - raminga nelle infinite vicissitudini della storia nazionale - approda ad un’esistenza in cui leggere trasformazioni sociali, mutazioni antropologiche, culturali, politiche, misurabili nello spazio dell’esperienza individuale. Struttura di un racconto già emblematico capace di farsi metafora, apologo, allegoria di qualcosa che appartiene alla più estesa collettività. Lo si evince dal convincimento che il cinema neorealista (capace di declinare in immagini il verismo) ha una sua peculiarità specifica proprio nella rete di rapporti con intellettuali ed artisti che spaziano nel medesimo universo: la letteratura consente di effondere, rendere trasparente e comprensibile, ciò che matura nella mente dei cineasti. Lo dimostrano tanto il verghiano “La terra trema” (1947) di Luchino Visconti, quanto l’attualizzazione sul piano sociale e politico che Alberto Lattuada opera su “La lupa” (1953), quanto la rivisitazione erotico-agreste che Gabriele Lavia profonde sul testo verghiano nel film omonimo del 1996. Nel neorealismo - più in generale nell’unicità dell’esperienza filmica italiana dal muto ai giorni nostri - non si deve ragionare sulla spiccata valenza letteraria di molte pellicole (tratte da, ispirate a, liberamente tratte da...) quanto invece sulle affinità elettive che coniugano l’esperienza filmica avvalorata dalla scrittura letteraria.

Un circolo virtuoso

Il flusso culturale - non dettato, aprioristicamente, da mode e modelli esterni e/o indotti- non semplicemente formale ma concreto, si produce in un circolo che ingloba arti visive, linguaggi letterari, immaginazione e realtà secondo uno schema che non prevede la casualità o la soggettività nella scelta del libro da tradurre su schermo, così come nel coinvolgimento o meno dello scrittore stesso sul piano della sceneggiatura (se non della regia).

Nel ragionare sul piano estetico-poetico o su quello formale-concettuale, o ancora su quello semantico-narrativo (se non filosofico), il punto di partenza non può che essere il Luigi Pirandello de “I quaderni di Serafino Gubbio operatore” (1925, inizialmente pubblicato come “Si gira…” sulla “Nuova Antologia” nel 1915), il romanzo in cui già Walter Benjamin rilevava la precisione analitica con cui affronta il cinema nei suoi aspetti estetici, semantici e concettuali: la macchina da presa è un “ragno in agguato” che priva gli attori della loro aura, registra impassibile e indifferente frammenti di vita vera e li traduce in materia volgare e ridicola. L’orrore reale che Gubbio riprende impassibile nel finale del romanzo è materiale sensazionalistico che - nel pieno disprezzo della vita (e della morte) umana - può essere montato ad arte e diventare film di successo che arricchisce produttore, regista, operatore il quale paga con lo shock che lo rende muto, annegato nell’apatia nichilista. Ma il romanzo di Pirandello è anche un’acuta, originale e tutt’oggi inarrivabile riflessione sull’osceno filmico ben esplicato nella formula definita da Alberto Moravia nei dialoghi de “L’occhio selvaggio” (1967) di Paolo Cavara: «Gli spettatori sono al tempo stesso masochisti e sadici. La donna armata, coraggiosa, eccita il masochismo. La stessa donna disarmata, il sadismo. Non esistono buoni film o cattivi film. Ci sono quei cinquanta metri che eccitano e ne fanno digerire almeno altri diecimila che annoiano».

Alberto Moravia nella sua veste polisemica di scrittore, critico, sceneggiatore riprende e riannoda il filo rosso che attraversa il rapporto tematico tra autori letterari e cinema italiano: l’indifferenza intesa come aspetto proprio del decadentismo, dell’aridità dei sentimenti, della mancanza di volontà che implicano il fallimento di un personaggio-uomo (per dirla con Debenedetti) che si consuma nell’apatia e si muove e si consuma in una famiglia (povera, media, borghese, italiana) in cui mutuano tutti, reciprocamente, l’assenza di speranza. Una “famiglia italiana” (intesa come collettività) in cui individui smaniosi, agitati, talvolta nevrotici rappresentano la crisi della coscienza moderna alienata dai falsi ideali, del denaro, del successo, del sesso. Moravia riprende, attualizza e rilegge nella società dei consumi quanto già Giovanni Verga traduceva nella scrittura per lo schermo del suo “Tigre Reale” (1916) di Giovanni Pastrone in cui Giorgio La Ferlita, capriccioso diplomatico siciliano senza nerbo, vanesio e superficiale si lascia travolgere dalla violenta passione per un’enigmatica, languida e fatale contessa russa definendo come l’amore-passione, il sesso, il tentativo di introdursi nel bel mondo e di avere successo (con le donne, ma non solo) camminino di pari passo con la morte: l’eros disgiunto dai sentimenti, dalle convenzioni (il matrimonio) consuma, brucia l’energia dell’individuo, vampirizzandolo, finendo per metterlo in contraddizione con la società civile e con se stesso.

Già all’epoca del muto, nelle prime e misconosciute collaborazioni con il cinema da parte degli scrittori emerge chiaro un dato: la natura “realisticamente pessimista” della vicenda italiana. Ancora Moravia, con il concetto di “noia” si incarica di legare passato e presente sul piano organico di un sentimento angoscioso nutrito nei confronti di tutto ciò che emerge dall’assurdità di una realtà insufficiente e che si confonde con l’incapacità di uscire da se stessi, dalla morbosa e necessaria autoreferenzialità in materia di sesso, denaro, successo, la cui presenza, disponibilità certifica la bulimia di un individuo travolto dal benessere; l’assenza (talvolta imprevista, improvvisa) nutre il disprezzo (verso sé e gli altri) che anima la crisi d’astinenza, lo stato di bisogno (nei suoi esordi di “Delitto al circolo del tennis” (1927) il “delitto gratuito” è già una dichiarazione programmatica in tal senso). Emerge un personaggio-uomo - ricalcato sul carattere e sull’identità italiana - che ha ormai ampiamente soddisfatto i suoi bisogni primari ed è alla disperata ricerca di stimoli che lo facciano sentire vivo. Un individuo in trappola - sospeso tra fuga e trascendenza - che, smodatamente, in modo sconclusionato e parossistico, combatte con il desiderio di provare qualcosa, di stabilire - seppur in modo temporaneo e precario - un rapporto con il mondo.

Da individuo a oggetto

Nel cinema italiano di matrice letteraria questo avviene solo con la pratica illecita e con l’emancipazione dei sensi, una liberazione che non può che essere innaturale e castrata perché connaturata ad una realtà concentrazionaria che prevede sovrastrutture e conformismi e che, pertanto, contempla (già in nuce) fallimento e tragedia: a dimostrarlo ci sono le inferenze pirandelliane: “Il fu Mattia Pascal” (1926) di Marcel L’Herbier e la vicenda controversa che lega il nome dello scrittore al progetto “Acciaio” (1933) di Walther Ruttmann in cui il sottotesto sessuale al triangolo amoroso è già anticamera della tragedia.

Si delinea sempre più un quadro a tinte fosche in cui nell’individuo matura la consapevolezza della sua reificazione, la presa di coscienza dell’essere oggetto spendibile sul piano economico e commerciale come qualunque altro prodotto. Il rapporto scrittura-cinema declina quest’assunto attraverso il percorso simbiotico tra letteratura e cinema di Pier Paolo Pasolini il quale quando afferma: «La ricerca intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia», denuncia l’impossibile ricerca della verità dietro a cui si celano la mistificazione degli atteggiamenti, la falsificazione del reale, la parametrazione dei rapporti interpersonali, sentimentali, sessuali, sul rapporto costi-benefici.

Nel suo cinema eterodosso emerge una società italiana i cui gli individui sono incapaci di veri rapporti sociali se non organizzati - tra livore e solitudine - attorno al meretricio delle coscienze. La dominante anaffettiva, l’impietrimento, l’immoralità disegnano un contesto (sciasciano, di “stato criminale”) che rende gli individui schiavi e intrappolati in una realtà che si nutre di apatia e indifferenza (le stesse che hanno prodotto gli orrori della storia). Il compulsivo desiderio di possesso “privato” di cose e persone si consustanzia all’iperconsumismo dominante. Qui l’uomo è mezzo, tragica vittima della sua alienazione, agnello sacrificale (sacrificabile) sull’altare dell’avidità umana. La via di uscita da tale condanna è l’umiliazione, il suicidio fallito in cui si acquieta la consapevolezza dell’impossibilità di qualsiasi redenzione.

Su un piano onirico e antropologico lo stesso discorso vale per la lettura di tutto il cinema felliniano come il tentativo di dare forma alla vicenda italiana letta come un blocco alla fase adolescenziale (il fascismo) in cui rilevante è il contributo di un intellettuale come Ennio Flaiano, ma a cui non è estraneo il rapporto con la letteratura meno visibile e allineata: lo dimostra il legame tra “Roma” (1972) e l’omonimo romanzo rapsodico di Aldo Palazzeschi.

Il ragionamento pasoliniano è declinato sul versante più propriamente politico da Elio Petri e dal rapporto del suo cinema con la letteratura di Leonardo Sciascia. Quest’ultimo partecipa in maniera irregolare, asimmetrica, alla realizzazione di film in cui esplicita la sua vocazione alla settima arte come testimoniato dalla recente pubblicazione per i tipi di Adelphi del seminale “Questo non è un racconto” contenente sceneggiature irrealizzate, recensioni e critiche, riflessioni su autori e film e una panoramica sul suo intervento, più o meno diretto, in vari progetti cinematografici tra cui è notevole il rilievo in merito al coinvolgimento nella scrittura di “Viva l’Italia” (1961) di Roberto Rossellini mentre non si fa accenno alla partecipazione come curatore dei dialoghi al misconosciuto e grottesco “La smania addosso” (1962) di Marcello Andrei, commedia di costumi e stereotipi siciliani, originale nel trattare “delitto d’onore” e “matrimonio riparatore”.

Petri si avvicina a Sciascia, quello di “A ciascuno il suo” (1962), attraverso un vero e proprio travaglio interiore che lo porta a maturare una riflessione politica sulla realtà italiana. I presupposti sono nel comportamento di una classe dirigente che distrugge l’Italia contadina e la rimpiazza con quella industriale e americana, trasformando le città in dormitori di cemento e asfalto preda dalla divorante speculazione edilizia, avidità e filosofia del profitto. Segni tangibili, secondo Petri, di una regressione barbarica: «Cos’è stato il cinema italiano se non un ostinato segnale di malessere? Che non era soltanto un malessere esistenziale, assoluto, ma legato alle condizioni storiche in cui eravamo costretti a vivere. Per quanto mi riguarda avvertii il bisogno di sporcarmi le mani. Il libro di Sciascia accese la scintilla di un interesse concreto».

Affinità elettive

Le affinità elettive tra il regista romano e lo scrittore siciliano si definiscono attraverso il ritratto del clima politico dell’Italia meridionale chiaro e non fraintendibile, animato dalla connivenza tra chiesa e Dc e soprattutto nella dimensione nominale (di denuncia) di uomini e dinamiche del potere. Il ruolo dell’intellettuale, Paolo Laurana, castrato, astratto, non connesso con la realtà, obbligato a vivere i drammi sociali da falsario con la mediazione della cultura, si scontra con un assassino vincente, un male trionfante e sghignazzante che si fa beffe di lui e di quelli come lui, quelli che diffidano dello stato, abbracciano il “sentire mafioso”, scelgono l’isolamento (anche sessuale) come rinuncia alla responsabilità e alla partecipazione attiva alla vita sociale.

Gli anni a cavallo tra i 60’ e i ’70 - nella dimensione occulta del potere - trovano nell’anamnesi di Leonardo Sciascia, nella sua pratica della “tecnica del giallo” l’incunabolo perfetto per tradurre su schermo la sua opera: “Il giorno della civetta” (1968) di Damino Damiani, “Cadaveri eccellenti” (1976) di Francesco Rosi, “Todo modo” (1976) di Elio Petri. Il carattere parodico del giallo di “A ciascuno il suo” viene accentuato ed esibito platealmente ne “Il contesto” (1971) secondo criteri retorici, stilistici, ideologici creando le condizioni per definire una metafisica del potere la cui temperatura allegorica è favorita dall’intermediazione dell’inquirente sui generis, nonché dall’allusività alla realtà italiana. Criteri attorno a cui si organizzano le pellicole ispirate ai lavori dello scrittore di Racalmuto e che consentono di legare la “questione meridionale” affrontata da Sciascia utilizzando la Sicilia come metafora, alla “questione settentrionale” indagata da Giorgio Scerbanenco e dal rapporto dello scrittore ucraino-milanese con il cinema di Fernando Di Leo.

Milano è palcoscenico imprescindibile per la teatralizzazione del crimine: città che si offre al lettore come il punto di implosione di tutte le contraddizioni sociali dell’epoca in cui il benessere degli “ultracorpi” dalla “vita agra” (per dirla alla Bianciardi) nasconde appetiti e perversioni di ogni tipo in cui sono esibiti - come un marchio di fabbrica - squallore e desolazione perché, come scrive Scerbanenco in “Traditori di tutti” (1966) : «È a Milano che ci sono i soldi, ed è qui che vengono a prenderli, con ogni mezzo, anche col mitra».

Di quanto quel fatidico decennio dei Settanta irrori il vissuto italiano - al di là di ogni ragionevole dubbio - lo si evince anche dalla constatazione che la messa in scena di quel malessere e di quelle contraddizioni lancinanti e dilanianti (l’individuo, la famiglia, la società) giunge fino ai giorni nostri nelle pagine assolate e crudeli delle fiabe nere di Niccolò Ammaniti e nella traduzione filmica di “Io non ho paura” (2003) di Gabriele Salvatores.

Inevitabile quindi che anche il genere per eccellenza del nostro cinema, la commedia all’italiana, trovi nella letteratura il substrato culturale e intellettuale verso cui convergere al nero di “Un borghese piccolo piccolo” (1977) di Mario Monicelli tratto dall’opera di Vincenzo Cerami e, soprattutto, alle traduzioni filmiche di Dino Risi dei romanzi di Giovanni Arpino, perché il regista spiega così questa curvatura: «Sono sempre stato affascinato dai viaggi, da quelli che vanno verso le catastrofi. La morte ne è quasi sempre un punto di arrivo». Risi a sessant’anni riscopre la sua originaria vocazione alla psichiatria e trova nei romanzi di Arpino “Il buio e il miele” (1969) e “Un’anima persa” (1966) la possibilità di innervare la commedia all’italiana con i temi moraviani dell’indifferenza e della noia convergenti nel più ampio “male di vivere”.

Una nazione adolescente

I suoi “Profumo di donna” (1974) e “Anima persa” (1977) utilizzano atteggiamenti scostanti, cinismo e cattiveria come caratteri di una maschera che cela la volontà di sfuggire alla pietà altrui e la paura di fronte alla morte; fattori che assumono carattere pedagogico nei confronti dei giovani testimoni delle parabole esistenziali degli adulti protagonisti (non a caso Vittorio Gassman che con la depressione ci ha fatto realmente i conti). Ecco, forse, è queste l’unica strada percorribile (ma non percorsa) che il cinema letterario italiano individua come possibile via di affrancamento dalla condanna all’apatia, alla passività esistenziale, all’immoralità e alla schiavitù dei sensi, quella di una pedagogia delle nuove generazioni invitate a non commettere gli stessi errori dei padri e a far uscire la nazione dall’eterna adolescenza in cui si crogiola leopardianamente: «e il naufragar m’è dolce in questo mare».

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