La vita complicata degli alberi da frutto

Una pianta produce frutti per riprodursi, non per farci contenti, eppure si è sviluppata una convivenza tra specie diverse prodiga di soddisfazioni. Le riflessioni di un dendrosofo a margine della Giornata nazionale degli alberi

Nei giardini e nei campi di tante persone ci sono gli alberi da frutto. Non sono quasi mai grandi alberi spettacolari, sono al contrario spesso piccoli, modesti, più o meno ordinati a seconda dell’ordine che governa il tempo dei rispettivi proprietari. In genere più gli umani sono maniaci della pulizia e della geometria da prato inglese e più questi alberi saranno alti tutti uguali, con lo stesso numero di rami da cui pende quasi lo stesso numero, o prossimo, di frutti, le ramaglie da una parte, gli attrezzi custoditi a dovere e così via. Oppure potrebbe regnare il disordine di certi giardini da contadino dove quel che conta, alla fine dei giochi, è la resa: il frutto da raccogliere, da mangiare, da vivisezionare, per marmellate o torte o quel che occorre.

Gli alberi da frutto dei nostri giardini e dei nostri campi sono alberi assai pazienti, resistono alle angherie che noi ci ingegniamo per ottimizzare la loro presenza: basti pensare alle potature, severe o severissime a seconda delle annate, e d’altronde ci sono alberi e specie che se non tieni sotto controllo, sotto ferreo regime si prendono tutto quel che possono, e magari si ingigantiscono sui fianchi, o in altezza, e chi le prende le mele a 15 metri di altezza? Chi le raccoglie le ciliegie a 18 metri in aria? Chi le afferra le prugne lassù, a 12 metri, quasi sopra il tetto della casa? E dunque potare diviene abitudine, segare, troncare, scorciare, depollonare.

Modi di convivere

Ma non è odio, è convivenza, una non facile e per niente scontata forma di convivenza tra specie viventi che desiderano e concepiscono evidentemente andamenti distinti. Una pianta produce frutti per riprodursi, mica per fare contenti noi, sebbene sia una pianta perfezionata con incroci, la cura, le tradizioni, le lune giuste e tutti i rimedi che il buon contadino, anche della domenica, sa adottare.

Piante familiari

E poiché quel che occupa il nostro tempo diviene anche un ricordo, la vicinanza di questi alberi li rende familiari, come un animale, come un cane o una nidiata di gattini, la rondine che ogni anno torna sotto il tuo tetto dopo i viaggi da poetessa beat nel Nordafrica. I nonni e le piante di noce, la zia che vive in campagna e le sue rose o i suoi nespoli e la sua uva fragola sotto la quale si consumavano liete e svagate le estati, il mese di agosto. Siamo quel che mangiamo, diceva il filosofo, e chi ha un pezzo di terra lo sa bene, anche se di mestiere, s’intende, fa tutt’altro.

La soddisfazione, l’appagamento, l’orgoglio perché no, di raccogliere le fragole nell’orto, le proprie fragole, piantate, allevate, sulle cui piantine hai visto dapprima apparire il fiore bianco e poi ingrossarsi il frutto acerbo e dunque rosso o rosato e poterlo finalmente staccare. Ed ora eccolo nella mia bocca, ne vuoi? Sono buone, raccolte stamattina. Non è forse un piacere fine della vita? E non cambia se si tratta di renette, uva moscato, lamponi, amarene, prugne Regina Claudia, albicocche, pesche, rusticane, more, more da gelso, mirtilli, ribes, visciole, duroni, castagne, ciascuna ovviamente colta nell’adeguata stagione di maturazione.

Chi non ha ricordi legati a queste occasioni? A queste intersezioni tra paesaggio, vita concreta, infanzia o giovinezza, parenti, amici cari, amori e piante? Spesso si tratta anche di parentesi, quando ci sottraiamo al furore della vita che inseguiamo, magari all’esistenza in città, o anche in casolari sulle colline intorno, facciamo dei passi indietro per cautelarci, trovare il tempo giusto per noi, come in certi romanzi nostalgici di Lalla Romano, Carlo Cassola, Gina Lagorio o Nico Orengo.

Ma il ritorno alle cose piccole e pratiche della vita di un tempo, quando si era per lo più agricoltori o piccoli artigiani di paese, o di borgata, concilia anche momenti della vita nei quali sentiamo di doverci ritirare: ritirare dai nostri impegni, sottrarre al lavorio quotidiano, al tran tran di casa lavoro, casa piscina, casa amiche, casa palestra e così via; il fallimento o la fine comunque di un matrimonio, la perdita del posto di lavoro, il termine di una attività alla quale abbiamo dato tutto noi stessi senza riuscire a farcela; la burrascosa conclusione di un’amicizia o di una frequentazione. Il dolore, il lutto, la perdita di un parente caro, di un genitore, di un amico. Cose che sappiamo far parte della vita che attraversiamo, eppure ci colgono puntualmente impreparati. Nostra madre era malata da tempo, l’abbiamo seguita, l’abbiamo accudita, abbiamo visto il suo corpo deperire gradatamente, il suo volto invecchiare, alleggerirsi e le sue espressioni quasi sfaldarsi, alla fine nemmeno la riconoscevamo più, anche se era lei, era stata lei, eravamo stati noi... attraversando e sprofondando in questi stati d’animo, in queste condizioni tragiche, drammatiche, riconquistiamo un po’ di noi stessi abituandoci al ritmo delle cose che nascono e che crescono in parte senza di noi: le insalate o i broccoli nell’orto, i gerani nei vasi, o una delle tante piante fruttifere che possiamo piantare nel giardino, in un campo, accanto a casa nostra. Qui, che sia una casetta a schiera nella periferia di Torino, o una baita a 1300 metri lassù, incastonata nel silenzio delle montagne, quella pianta, quel giardino, quell’orto o il bosco che abbiamo finalmente deciso di accudire, beh, ci riconsegniamo all’ordine spontaneo della vita, leniamo il dolore, la mancanza, l’indecisione, l’inadeguatezza, l’imponderabilità delle cose umane e terrestri.

Proprio pensando a questo intreccio di esistenze, di radici, di prospettive, ho composto una poesia per celebrare, a mio modo, gli alberi. Buona Giornata Nazionale dell’Albero!

IL FICO MATURO

Non ti puoi sbagliare:
esiste soltanto un momento,
nel giorno, in cui puoi cogliere
il fico maturo, quel frutto gonfio
che si frattaglia umidoso tra le dita.

Poche ore prima sarebbe ancora
inesperto, titolare di un rosso
non pienamente convinto, oserei
dire didascalico, formale,
un rosso pastello da cerimonia.

Ci vuole quel principio inatteso
di marcescenza, il fico maturo
sta già volgendo al crepuscolo,
poche ore e sarebbe andato,
invaso, annerito, sprecato.

Quando lo smezzi sei Gesù
col pane e le mani e gli amici,
è una gioia dei sensi: lo sorseggi
cautamente, vorresti che non
finisse mai, il boccone eterno.

Poi sorridi perché sai che sei
ancora quel bambino che si
arrampicava sul fico dei nonni,
e senza chiedere permesso
li rubavi tutti, a scorpacciare

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