L’eccidio di Lidice distruzione e rinascita

La notte fra il 9 e il 10 giugno 1942, alle 11.30, il villaggio ceco di Lidice, a una ventina di chilometri da Praga, era avvolto nel silenzio. Le poche luci cittadine gettavano ombre sulle case allineate, sui tetti fortemente spioventi, sulle piccole staccionate che recingevano i giardini di ognuna di esse, sulla vecchia chiesa, sul mulino, sul massiccio edificio della scuola (sopra l’ingresso era scritto: “La scuola è la mia felicità”)... Se c’era la luna, quella notte, qualche barbaglio doveva far brillare qua e là l’acqua del ruscello vicino. Se doveste “creare” un tipico paese della Boemia di una volta, ecco, lo fareste proprio come Lidice.

E poi, d’improvviso, urla, ordini secchi, scalpiccio di stivali, rumori di mezzi motorizzati... Sono colonne di tedeschi - soldati della Wermacht, agenti della Gestapo, poliziotti, SS... - che circondano il paese, entrano nelle case, ne scacciano gli abitanti e li separano: donne e bambini rinchiusi nella scuola, gli uomini nella cantina della fattoria Horák.

Tutti i paesani sono accusati di aver prestato “aiuto e soccorso” agli autori dell’attentato che il 27 maggio di quell’anno aveva provocato il mortale ferimento di Reinhard Heydrich, “Reichprotector” di Boemia e Moravia. Proprio il 9 giugno si erano svolti i funerali solenni del “boia di Praga”, come veniva chiamato Heydrich.

Punizione esemplare

A Lidice non ci furono processi, indagini, interrogatori. Non ce n’era bisogno: serviva un forte esempio alla popolazione, sempre più ostile agli occupanti. Gli uomini furono allineati lungo il muro della fattoria Horák e fucilati a gruppi di dieci. Erano 173 e gli ultimi gruppi dovettero camminare sui corpi degli altri per raggiungere il muro. E quando dico “uomini” intendo tutti i maschi di età superiore a 15 anni. Mancavano 23 abitanti di Lidice. Erano minatori che svolgevano il turno di notte. I tedeschi aspettarono che tornassero a casa, poi li condussero a Praga e lì li fucilarono. E così il conto fu chiuso: 196 morti! (il numero varia leggermente a seconda delle fonti). Un solo uomo avrebbe potuto sopravvivere: si chiamava Josef Štemberka, aveva 73 anni ed era il parroco del paese da 35 anni. I nazisti, dopo averlo gettato a terra e preso a calci, gli dissero che lo avrebbero lasciato in vita se avesse pubblicamente condannato l’operato dei suoi paesani. Rifiutò e finì anche lui davanti al muro della fattoria Horak. Nulla fu lasciato al caso. Un minatore che si trovava in ospedale perché ferito fu fucilato quattro mesi dopo, a guarigione avvenuta.

Dopo aver eliminato le persone i nazisti pensarono alle case. Prima le svuotarono di tutto ciò che poteva avere un minimo valore, poi dettero loro fuoco e le fecero saltare con la dinamite. Prima di distruggerlo, profanarono il cimitero, alla ricerca di piccoli monili e dei denti d’oro delle salme. Non risparmiarono niente e nessuno, neppure gli animali da cortile e d’affezione. Una foto mostra un cagnolino morto fra le macerie, ancora a catena: gli spararono, o forse lo lasciarono al suo posto dopo aver fatto crollare le case.

Gli autori della strage filmarono e fotografarono accuratamente tutte le fasi dell’“operazione” e film e foto finirono nei loro archivi catalogati come “documenti istruttivi e culturali”. Il film, infatti, aveva scopi didattici ed educativi: doveva mostrare alla gioventù la forza, la decisione, la perfetta organizzazione e disciplina della macchina nazista.

Le 198 donne (203 secondo alcuni documenti) con 99 bambini furono condotte nella vicina Kladno. Il più piccino aveva 14 giorni, la più anziana 88. Qui i bambini furono tolti alle madri e condotti a Lodź, in Polonia. Le madri, con le figlie di oltre 14 anni, furono avviate al campo di lavoro (poi di concentramento) di Ravensbrück, dove sette di esse partorirono nelle settimane seguenti: sette neonati di cui sei morirono poco dopo. Il settimo fu dato in adozione a una famiglia ceca e restituito alla madre dopo la liberazione. Da Ravensbrück 35 di esse, le più anziane, furono trasferite nel campo di concentramento di Auschwitz e destinate ad esperimenti medici.

I bambini

Quanto ai 99 bambini di Lidice, sette che avevano meno di un anno furono messi in un orfanatrofio a Praga sotto nomi tedeschi. 17 furono giudicati “idonei alla germanizzazione” e dati in adozione a famiglie tedesche, gli altri 75 furono portati nel campo di sterminio di Chelmno, a una settantina di chilometri da Lodź. Cinque di essi avevano fra uno e due anni di età, sei dai due ai quattro anni, 15 dai quattro ai sei anni... Tutti furono avviati alle camere a gas.

Finita la guerra, i bambini adottati da famiglie tedesche furono faticosamente rintracciati e restituiti alle loro madri (quando queste erano ancora in vita), aprendo un altro orrendo e doloroso capitolo. Perché quei bambini - non solo quelli di Lidice, ma molti altri provenienti dalla Francia, dalla Norvegia, dal Belgio, dalla Polonia... - spesso non ricordavano la loro vera famiglia, si erano affezionati a quelli che consideravano loro genitori ed erano trattati amorevolmente. Rieducarli richiese tempo, fu penoso e difficile.

I nazisti lavorarono a lungo per togliere le abbondanti macerie, poi spianarono accuratamente il terreno. Nel 1944 circondarono l’area di filo spinato e affissero cartelli con i quali avvertivano che chiunque fosse entrato sarebbe stato fucilato. Cancellarono il nome del paese dai registri catastali e dalle carte geografiche. Per loro Lidice e i suoi abitanti non erano mai esistiti.

La vita, però, ha sempre avuto ragione della morte, almeno fino all’avvento dell’atomica. Decine di paesi in tutto il mondo, di quartieri, di piazze, di strade, di parchi si chiamarono “Lidice” quando ancora infuriava la guerra. E subito alla fine del conflitto il governo cecoslovacco decise che il paese doveva rinascere. Nel 1956, grazie anche a contributi e sottoscrizioni in tutto il mondo, furono ultimati i lavori di ricostruzione: 150 casette sorte nei pressi del luogo dove era la vecchia Lidice, con le strade e le infrastrutture. Con un laghetto, la Casa della cultura e il monumento ai suoi martiri. E naturalmente la chiesa e la scuola. C’era anche un meraviglioso roseto, il “Roseto della pace e dell’amicizia”. Fu voluto dagli inglesi, che avevano costituito il comitato “Lidice vivrà”, e inaugurato nel giugno del 1955. I promotori contavano di impiantare da cinque a diecimila rosai, cinque anni dopo l’inaugurazione i rosai erano 29 mila, inviati da 35 Paesi, e coprivano un giardino lungo 800 metri e largo 700.

Vegliare sempre

Oggi la nuova Lidice conta 579 abitanti (censimento 2020) ed è meta di migliaia di visitatori. Nelle sale del Museo della Memoria si può rivivere quella umana tragedia, simile - e insieme diversa - alle tante che il nazismo seminò in Europa. Come quelle, in Italia, di Marzabotto, con i suoi 1830 morti, o di Sant’Anna di Stazzema, in Versilia, con 560 abitanti massacrati, compresi vecchi, donne e bambini. Tra i fiori del roseto si può cercare la fiducia nella pace, quella che le attuali vicende di guerra russo-ucraine hanno ancora una volta, tragicamente, messo in discussione.

All’entrata del Museo c’è un monito che si apre con la frase “Uomini siate vigilanti”. E’ lo stesso imperativo con il quale si chiudono le pagine di Scritto sotto la forca, dell’intellettuale praghese Julius Fucik, che combattè il nazismo e fu impiccato l’8 settembre 1943 a Berlino: “Uomini, vi amavo. Vegliate!”

In un suo messaggio indirizzato a Lidice Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace, ha scritto: «Non ci si può illudere sperando che ciò sia impossibile a ripetersi, perché non sembriamo decisi a estirpare l’inumanità». Ecco: vegliare, sempre, e non illuderci mai che la pace sia una condizione definitiva. Questa credo che sia la lezione che ci lasciano – oggi più che mai – gli uomini, le donne, i bambini di quella Lidice.

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