Sovranità alimentare e pesticidi americani

Estendere l’ombrello della sostenibilità ai prodotti provenienti dagli Usa è una risposta a Trump più efficace della minaccia di contro dazi. Etica e sicurezza in tavola sono un bene comune

L’Europa vive al contempo il momento più delicato della sua storia recente e quello più sfidante. Mai come ora si addensa una cupa nuvolaglia spinta dal turbinio di Trump e dai venti di guerra in Ucraina e in Medio Oriente. Mai come ora anche i paesi un tempo motore dell’Europa (come Francia, Germania e tempi addietro anche la Gran Bretagna) sono consapevoli che solo con la forza dell’Unione europea , e dunque di una voce unica, sarà possibile evitare di essere relegati a un ruolo comprimario nel mondo.

La strada, tuttavia, non è quella di correre a trasferire competenze all’Unione europea perché richiederebbe troppo tempo -per la modifica dei Trattati - e denaro -per sostenere il bilancio comune- che i paesi membri non sono disposti a riconoscere.

Ho già avuto modo di ricordare sulla pagine di questo giornale come la via maestra da seguire sia quella di concentrare gli sforzi congiunti verso quelli che sono stati efficacemente definiti i “beni comuni europei”. Tra questi la sicurezza, la sovranità tecnologica e digitale e la sovranità alimentare. Mi voglio concentrare oggi su quest’ultima partendo dalle sue fondamenta. La sovranità in ambito produttivo e dunque anche in quello agroindustriale si basa sul concetto di catena globale del valore ( in inglese la “Global Value Chain”), cioè quel filo di rapporti tra produttori della materia prima (si pensi al grano o alla soia) sino ai distributori dei prodotti ai banchi dei supermercati.

Catene e filiere

Si stima che circa l’80% del commercio globale dipenda dalle catene di fornitura con ramificazioni che attraversano tutte le sponde del nostro globo terraqueo e, per i prodotti ittici, pure gli oceani. Ma cosa significa dunque sovranità alimentare? Significa poter contare sulla affidabilità di tutto gli operatori economici che vi operano, dall’agricoltore appunto sino al distributore del prodotto al cliente. Affidabilità sia sotto il profilo produttivo (si pensi al fenomeno della mucca pazza che per anni ha vietato la commercializzazione di alcuni tipi di carne bovina) che dei tempi e costi di consegna (di attualità le circumnavigazione del continente Africano per evitare aree colpite dagli Houti).

Due esempi

La coltivazione e la logistica, dunque, giocano un ruolo centrale in questa sfida che mette in relazione sostenibilità e competitività, per due ordini di motivi. Una filiera più corta risulta più affidabile e competitiva perché l’incidenza dei costi di trasporto sono minori. Talvolta, tuttavia, quel determinato prodotto non è disponibile in loco, oppure lo è a prezzi molto più elevati o ancora in quantità insufficienti, dunque deve essere importato.

Un esempio per tutti è quello della soia, un legume alla base di tantissimi prodotti che consumiamo giornalmente, dal latte allo yogurt, dalla farina all’olio, ma alla base anche di prodotti cosmetici come saponi e creme e addirittura il biodiesel. La grandi quantità di questo elemento naturale, tuttavia, non sono disponibili in Europa e dunque vanno importate. Al momento, gli Stati Uniti sono il maggior fornitore di soia per l’Unione Europea, rappresentando circa il 44% delle importazioni per un valore di 3,5 miliardi di dollari e 5,8 milioni di tonnellate). Lo stesso vale per il mais: gli Stati Uniti sono il secondo fornitore dell’Unione Europea, secondi solo all’Ucraina.

Possiamo ora considerare competitiva e sostenibile questa filiera che parte dai campi del Midwest e arriva nei nostri scaffali? Certamente no, e non solo per gli incombenti e sconclusionati dazi trumpiani ma anche e soprattutto per un altro elemento che è sempre rimasto sottotraccia. I prodotti agricoli americani in questione sono più competitivi e disponibili perché coltivati con fitofarmaci (i cosiddetti pesticidi) largamente e da tempo vietati in Europa.

Il fitofarmaco denominato Atrazina, in particolare, è stato vietato nell’Unione Europea per le gravissime ripercussioni che questa sostanza ha sull’acqua, sugli animali e sulle colture con cui entra in contatto. Sugli animali come i pesci e le rane, inoltre, l’atrazina ha un effetto devastante arrivando a causare cambi di geni e di sesso tramite mutazioni ormonali irreversibili su pesci e rane. Inoltre, causa problemi di riproduzione nei mammiferi oltre che nei pesci. Evidenze della sua permanenza di notano anche in verdure, frutta, pesci e latte di mucca.

È vero che i prodotti coltivati con queste sostanze, quando arrivano alle dogane europee, non presentano che tracce del fitofarmaco considerate innocue dall’organizzazione mondiale del commercio ma è anche vero che l’acquistarle rappresenta un caso classico di “footprint shifting”, ovvero la delocalizzazione degli impatti ambientali legati ai consumi europei verso paesi terzi. In altre parole, quello che consumo per casa mia costringe altri a inquinare a casa loro.

Per troppo tempo ci siamo fregiati di essere “green”, ignorando come spesso il nostro ambientalismo abbia generato impatti nocivi sulla salute e sulle terre altrui. È tempo che le aziende chiamate a commercializzare i prodotti finali nei nostri mercati impongano le regole della sostenibilità a tutti gli operatori della filiera di cui sono il terminale.

Estendere l’ombrello della sostenibilità ai produttori americani non è solo una risposta assai più produttiva della minaccia di contro dazi, ma l’affermazione che la sovranità alimentare in Europa è un bene comune.

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