Vivere centovent’anni, una sfida anche etica

Un traguardo che sembrava fantascientifico si avvicina grazie al progresso tecnologico. Potremo incrementarne le prestazioni del cervello ma si rischia di manipolare la personalità

Giorgio Cosmacini (Milano, 1931)è medico, laureato in filosofia, autore di molti libri di Storia del pensiero medico,di Bioscienze e di Bioetica.Il testo che vi proponiamo, per gentile concessione dell’editore Pantarei, è tratto dal suo nuovo saggio “Rivoluzioni nella storia delle scienze della vita. Lezioni universitarie di filosofia delle bioscienze” (pp. 214, € 15).

Nel Novecento maturo, quando manca un ventennio alla fine del secolo che è anche la fine del millennio, in una atmosfera di tipo millenaristico c’è, tra gli scienziati, chi con spigliata disinvoltura afferma che la sigla a.C., significativa dei secoli decorsi “ante Christum”, dovrebbe significare, d’ora in poi, “ante Clonazione” datando il futuro a partire dall’acquisita capacità umana di riprodurre artificialmente la vita.

Il viaggio intrapreso da Ippocrate con la naturalizzazione del «male sacro» sembra prossimo a concludere il proprio percorso ultrabimillenario. «Il futuro ha un cuore antico», ha intitolato un suo libro il medico Carlo Levi.

Nel 1980, in sincronia con l’avvenuta eradicazione del vaiolo su scala planetaria (con un campione del virus archiviato per memoria storica in laboratorio a Mosca e a New York), l’Organizzazione Mondiale della Sanità enuncia un programma fidente e ambizioso vaticinando «Salute per tutti nell’anno Duemila».

Lo sguardo scientifico si apre al futuro. Non è una novità: il «discorso sul futuro» è una attività intellettuale che appartiene a ogni tempo, anticamente esercitata dalla mantica o «arte della memoria», praticata da chi interpretava, come Prometeo, i segni dell’avvenire collocato «in grembo a Giove». Profeti, àuguri, aruspici, oracolanti e veggenti, ma poi anche naturalisti, umanisti e filosofi si sono cimentati, oltreché nell’arte memore del passato o “mnemotecnica”, nell’arte predittiva del futuro o “futurologia”.

Insieme al «discorso sul passato» o “anamnesi” e al «discorso sul presente» o “diagnosi”, il «discorso sul futuro» o “prognosi” è, per statuto, rappresentativo del tripode metodologico su cui si basa l’arte medica, fondata rispettivamente sui precetti di “praeterita agnoscere”, “praesentia scire”, “futura prospicere”. Accanto all’importanza di «conoscere le cose passate» e di «sapere le cose presenti», l’importanza di «prospettare le cose future» nel campo della salute (e delle bioscienze atte a preservarla, tutelarla o ricuperarla) si inscrive nell’ambito di una relazione interumana, duale e plurale, in cui stanno non soltanto gli eventi prevedibili, ma anche i loro significati morali e sociali. Proiettata nel futuro, la bioscienza di non pochi vessilliferi impegnati in predizioni incalzanti ha delineato una “Life whithout Disease” (Berkeley 1998), una «vita senza malattia» con aumento garantito di una longevità protratta per tutti fino a centovent’anni. È stato scritto che nel 2050 «i progressi della terapia genica e i farmaci della “proteomica” [aventi come bersaglio le proteine protoplasmatiche delle cellule] avranno praticamente eliminato la maggior parte delle malattie e i vecchi condurranno una vita normale in piena salute sino a poco prima di morire».

Il gene della longevità

L’uomo del futuro potrà dunque lasciare nel dimenticatoio la definizione di «essere mortale» datagli da Socrate? Il “gene della longevità” (P66SHC), che consente ai ratti di vivere più a lungo di quelli cui è stato tolto, e il “gene della felicità” (5-HTTLPR), un «gerontogene» collegato al precedente, sono pietre miliari della ricerca genomica che promettono di far uscire la scienza della vita da uno dei suoi «buchi neri». Dal punto di vista scientifico-tecnico, i problemi relativi alla genomica della longevità e della felicità si connettono alle ricerche sul sistema neuro-endocrino-immunitario dei neuroni corticali e subcorticali, della chimica delle sinapsi, dei meccanismi neuropsichici dell’“empatia”.

«Empatia» è nome derivante dal greco “empathòs”, che significa «appassionatamente» e che si compone della preposizione “en”, «dentro», e del sostantivo “pàthos”, «patimento», «passione», «compassione». Definisce la capacità di esperire intimamente l’esperienza altrui. Il suo substrato neurobiologico, studiato con tecnologia biomedica dalla «risonanza magnetica» strutturale e funzionale del cervello, sta nei cosiddetti «neuroni specchio» scoperti nel 1992 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma coordinati dal neurofisiologo Giacomo Rizzolatti.

I “neuroni specchio” sono cellule nervose che si attivano nel soggetto quando compie una determinata azione, ma anche quando tale medesima azione, compiuta da un altro soggetto, viene condivisa, compresa e vissuta come fosse propria. Storicamente, il percorso “from mirror-neurons to empathy” può essere visto come un viaggio iniziato nel 1546 con il concetto di sympathia et antypathia rerum elaborato da Girolamo Fracastoro. La possibilità di ottenere informazioni sempre più approssimate alla dinamica del cervello permette di adire a nuove valutazioni nell’ambito dell’annoso e sempre acceso mind-body problem. Lo studio aggiornato del «rapporto mente-corpo» sembra oscillare attualmente tra una sorta di «neuromania», in chi tende a ricondurre o ridurre ogni fenomeno cognitivo o comportamentale alla sua matrice neuronale (sinaptica, biochimica, biofisica), e una sorta di «neurofobia», in chi teme che i dati forniti dalle più avanzate tecnologie biomediche sovraccarichino di implicazioni deterministiche e materialistiche le idee valoriali di libero arbitrio e dello spirito umano. Le neurotecnologie di cui è prodiga e fiera la scienza del cervello comprendono le sperimentazioni e traslazioni chimico-cliniche della neurofarmacologia e gli interventi operatori della neurochirurgia (a cominciare dalle neuroprotesi). Oggi si prospetta anche la possibilità di «potenziare» le attività cerebrali nel senso non solo di risanare un cervello malato, ma pure di stimolare un cervello ritardato. L’essere umano potrà diventare più intelligente e più intraprendente mediante una adeguata «neuromodulazione» o «neurostimolazione» in grado di modificarne e incrementarne le prestazioni cognitive e comportamentali? L’insito rischio di una «neuromanipolazione» confligge con la esigenza del rispetto dovuto all’identità mentale del soggetto cui il cervello appartiene. Emerge spontanea una filosofia “neuroetica” che è parte integrante e rilevante dell’onnicomprensiva “bioetica”.

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