Quatar pass con Van de Sfroos: «Ricordi, terra e natura: ecco i frutti di “Manóglia”»

Videointervista Il giorno è arrivato: il nuovo album di Davide Van De Sfroos arriva all’ascolto. E lui ce lo presenta così: «Non si tratta di sterile nostalgia, ma di un intervento “farmacologico” contro un mondo veloce e complicato»

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«La canzone è una penna e un foglio, così fragili fra queste dita, è quel che non è, è l’erba voglio, ma può essere complessa come la vita». Parole del maestro (anzi, del “maestrone”) Francesco Guccini più che mai appropriate per introdurre “Manóglia”, il nuovo album di Davide Van De Sfroos, un album arrivato dal nulla, che poteva essere fatto di niente, visto che è stato realizzato ripescando dai cassetti brani quasi dimenticati, nati senza intenzione di renderli pubblici, e invece contiene di tutto, anche dei veri e propri esperimenti inediti per un’artista che rimane orgogliosamente folk, ma ispirandosi all’accezione più ampia del termine, guardando all’America rurale, ma toccando anche il jazz manouche e la psichedelia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il tutto con una coerenza perfetta.

Insomma, come in un racconto di Borges, aprendo quello scrigno che custodiva parole e note dimenticate, sono state ritrovate delle perle.

«Alcune non erano neppure canzoni, ma solo suggestioni. ‘Ankainköö’ l’ho scritta la mattina mentre portavo i ragazzi a prendere la corriera alle 6.30 per andare a scuola, con questa gente attorno che fuma ancora prima di parlare, che cammina ancora prima di svegliarsi però trova rifugio nelle luci flebili del bar».

Partiamo da “Zia Nora”, il brano centrale di questo disco e l’unico interamente in italiano. Una canzone che neppure il suo autore avrebbe mai pensato di condividere.

È vero. Mia zia Nora è un personaggio che avevo nominato spesso. Era la sorella della madre di mia mamma. Una donna che ha vissuto lavorando tra Cervinia e Sestriere, che è arrivata fino in Argentina, unica a trovare i nostri parenti, ma che trascorreva anche lunghi periodi a Rapallo da una sua amica. Insomma, una donna libera che per me è stata una presenza fondamentale negli anni della mia infanzia, e anche per mia madre quando aveva quell’età.

Com’è nata la sua canzone?

L’ho scritta proprio per regalarla a mia mamma, una gioco tra noi due. Lei la teneva nel suo telefono e ogni tanto se l’ascoltava. Però poi qualcuno l’ha sentita, posso averne accennato anche io qualche passaggio ed ecco che è arrivato il momento di condividerla.

È lo spirito di questo disco. Per certi versi è quasi un concept album, non perché le canzoni sono legate fra di loro da un argomento comune o da un unico genere musicale, ma dall’atmosfera.

Sì, non è come “Dark side of the moon” dei Pink Floyd o “The lamb lies down on Broadway” dei Genesis, non c’è un’unica storia, ma c’è una pasta unica, autunnale, che amalgama tutte le canzoni. Chi lo ha ascoltato mi ha detto che gli è sembrato di fare un viaggio. Ecco, allora, che ho voluto che uscisse nel mezzo dell’autunno, in ottobre. Un disco da sentire per intero.

Significativa, in questo senso, anche la scelta di pubblicarlo in vinile, in compact disc, ma non sulle piattaforme di streaming.

Sì, è un discorso complesso. L’anno scorso Francesco Guccini, per celebrare il suo inatteso ritorno alla musica con quelle “Canzoni da intorto” a cui mi ha chiamato a partecipare, aveva fatto per primo quella scelta. Nel mio caso si tratta di favorire una musica come la mia, come quella di tanti autori “non mainstream” che si perdono in questo grande mare di modernità, andando anche incontro a quelli che ancora vendono dischi, cercano di far circolare un oggetto di cultura e non solo di consumo, un consumo sempre più rapido e distratto.

Di che “pasta” è fatto “Manóglia?

È fatto di colori, di sensazioni, di emotività. Come se la tematica fosse proprio il ricordo, e poi la terra, la natura, le cose del passato che non passano mai. Questo non per crogiolarsi nella nostalgia sterile. È un ricordo che potremmo definire “farmacologico”, che serve anche per contrastare una velocità e un mondo che riesce a metterti in crisi sempre in modo più complicato.

Qual è l’antidoto?

La libertà. Questo è un disco libero, del mio essere libero anche di fare un album come questo, nato senza nessuna imposizione né calcolo, solo per il piacere di farlo. Per la prima volta arrivando in studio con i musicisti senza avere un’idea già predefinita di come dovevano suonare i brani, lasciando che tutti trovassero il proprio spazio.

Lasciando liberi anche loro...

Sicuramente. Ed ecco che è uscito il jazz manouche di “Forsi”, che è un’altra canzone simbolica, perché parla della mia voglia di non allinearmi, di non fare la musica che piace oggi, andare nei posti dove vanno i miei coetanei e i miei colleghi, continuando a frequentare le osterie, cantando con gli anziani. Anche in questo caso, non è un accanirsi sul passato, per me è una forma di resistenza. Volevo una musica ribelle, di un tempo che non è questo ed è uscito questo pezzo alla Django.

C’è anche un po’ di psichedelia.

Quella di di “El mekanik”, venata di folk, un po’ come quei dischi meravigliosi di Tim Buckley. C’è anche una canzone doppia come “Crisalide (Le ali del falco)” e “El Giuvannón (Il becco del merlo)”, due facce della stessa medaglia, legate dalla musica e dal testo consequenziale, ma con colori completamente diversi, nel primo caso pianoforte e archi, nel secondo strumenti a corda. Poi Alessandro Gioia, un caro amico e collaboratore di lunghissima data, ha avuto un’intuizione geniale sul finale di “Foglie al vento”: sembra che duri per sempre, come se tutto il disco non dovesse finire mai.

Cosa direbbe zia Nora di queste canzoni?

Lei era una grande narratrice. Non ha mai scritto niente, ma mi ha insegnato la bellezza del raccontare, quella bellezza che mi spinge, ancora adesso, a creare nuove storie. Adesso anche lei è uno di quei racconti. Come dice il ritornello – tormentone, che ha fatto sì che tanti dicessero che non potevo più tenere solo per me e mia madre questa canzone, “mia zia non è più mia”, non è più solo mia: come tutte le altre foglie di questa magnolia, adesso è nelle mani di chi le ha raccolte.

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