A Como la mostra
senza voce

I dati nudi e crudi potete leggerli ne La Provincia in edicola martedì 22 luglio ma la conclusione possiamo anticiparvela qui: non ci siamo proprio. I dati di cui sopra si riferiscono al numero di visitatori della mostra in corso a Villa Olmo (“Ritratti di città”) dal giorno dell’inaugurazione – 27 giugno – a giovedì scorso, 17 luglio. C’è poco da girarci intorno: i numeri sono bassi e, di conseguenza, la delusione alta.

È sempre possibile, per chi ha voluto la mostra e per chi l’ha concretamente organizzata, attestarsi sulla barricata della qualità contro la quantità: i numeri, in effetti, non fanno da tornasole alla bontà di un allestimento. Purtroppo gli esempi non mancano: ci sono acclamati curatori che vantano successi i quali, a ben guardare, andrebbero classificati sotto la definizione di “truffe”. Nomi di grande richiamo applicati a mostre nelle quali, dei nomi e dell’arte a essi associata, c’era ben poco, quando addirittura nulla. Non è questo il caso di “Ritratti di città”: non un allestimento epocale (non ha mai preteso di esserlo) ma certamente dignitoso e meritevole di una visita. Rispetto alla mostra dello scorso anno - “La città nuova. Oltre Sant’Elia” – quella in corso a Villa Olmo si avvantaggia del fatto che, pur innestandosi sullo stesso filone tematico, presenta una collezione meno specialistica e più appetibile al grande pubblico: i nomi di Boccioni, De Chirico e Sironi fanno capolino ed esercitano un fascino, per quanto discreto, sicuramente palpabile.

E allora perché tanta freddezza? Spiace dirlo, ma siamo in presenza di un problema di comunicazione. Difficile puntare il dito contro un aspetto particolare di questa mancanza e altrettanto impegnativo individuare il “colpevole” (anche se, politicamente e culturalmente, il punto di riferimento non può che essere l’assessore Luigi Cavadini): bisognerà accontentarsi di dire che a “Ritratti di città” manca una certa patina di evento, il fascino un po’ mondano dell’appuntamento imperdibile, il messaggio che, ovunque, dai muri e dai media, assedia il cittadino: ci devi essere anche tu, non puoi mancare.

Potremmo sederci in circolo e, come alla recita del rosario, a turno levare dolorose lamentazioni circa la superficialità dei tempi moderni, in cui una cosa non “succede” se non fa rumore e non è illuminata a intermittenza, in cui è la comunicazione – studiata o, meglio, calcolata a tavolino e indirizzata con precisione scientifica – a decidere le sorti di un’iniziativa e non il valore intrinseco dell’iniziativa stessa. In parte, è sempre stato così; oggi lo è in misura preponderante, perfino eccessiva, siamo d’accordo, ma fingere di non saperlo non servirà a cambiare le cose: riuscirà soltanto a far fallire una mostra che, tutto sommato, non se lo merita.

Ogni informazione, sia essa utile o voluttuaria, seria o di intrattenimento, passa oggi dalla stessa porta: quella di una comunicazione che non può più dirsi discreta e, se smorzata, corre solo il rischio di apparire snob. La “grande mostra”, in quanto “grande” e in quanto “mostra” non può permettersi di essere un avvenimento marginale, di periferia (in senso culturale), secondario o accessorio.

Comprendiamo la reticenza di chi, per carattere ed educazione, fatica a strillare e a imporre l’attenzione con sistemi magari un tantino fragorosi. Temiamo però che, così facendo, il messaggio da far passare non sarà né apprezzato né esecrato: semplicemente, nessuno riuscirà a sentirlo.

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