Braccialetti sul polso
E anelli al naso

La gente beve. Dopo aver sentito eminenti statisti che non hanno mai lavorato e non hanno mai visto un’azienda in vita loro straparlare e catoneggiare e pontificare sullo scandalo dei braccialetti di Amazon, abbiamo capito che il luddismo - in versione grottesca, naturalmente - è la nostra unica cultura condivisa. Autobiografia della nazione. Album di famiglia. Metafora di una repubblica delle casse del mezzogiorno che galleggia sul terrore del futuro, il vagheggiamento dei bei tempi andati e l’eterna ricerca di coccole e protezioni.

Bisogna stare sempre attenti a quello che dicono i politici, i nostri in particolare. E quando ci si accorge che sono tutti d’accordo su una cosa, allora bisogna ascoltarla per bene, ponderarla, soppesarla, approfondirla e poi fare esattamente il contrario. E visto che questo è un sillogismo infallibile, la levata di scudi contro il braccialetto elettronico che potrebbe essere messo ai polsi dei dipendenti di Amazon – e il fatto che ancora non esista viene considerato irrilevante – trasformandoli in burattini del Padrone, pupazzi delle Multinazionali, schiavi del Neoimperialismo digitale, greggi asserviti e ottusi del Grande Fratello colonialista, ha scatenato una di quelle belle polemiche nelle quali i nostri deputati e senatori hanno dimostrato un’altra volta ancora che in quanto a cultura, competenza, visione e, soprattutto, assenza di demagogia, non prendono lezioni da nessuno.

Pronti via ed è partito il circo mediatico. E farabutti e mascalzoni e schiavisti e fascisti e nazisti e giù le mani dagli intoccabili diritti dei lavoratori, giù le mani dai sacrosanti recessi della nostra vita privata, giù le mani dalle conquiste democratiche figlie delle lotte di popolo della Resistenza, giù le mani dal Piave, Amba Alagi, Curtatone e Montanara e non siamo servi e non siamo carcerati e non siamo robot e qui ci mettono alla gogna e qui manca solo la palla al piede e il chip sottopelle e le scariche elettriche e giù insulti e fischi e alti lai e supreme indignazioni in un sabba di delirio collettivo che ha finito con il contagiare anche i migliori come il ministro Calenda. E nel quale la nostra ineffabile categoria non ha mancato di fornire il consueto contributo di competenza e raziocinio, dimenticando la lezione sintetizzata da un tweet strepitoso di Mattia Feltri: “Ce l’avessimo noi giornalisti un braccialetto che vibra ogni volta che scriviamo una minchiata…”.

Ora, il prototipo di Amazon emette degli impulsi sonori ultrasonici che aiutano i magazzinieri a individuare gli scaffali giusti e quindi la merce da prendere, supportandoli nel loro lavoro di smistamento. A pensarci bene, nulla di nuovo. Tutte le aziende utilizzano da anni scanner palmari per il controllo dell’inventario e la spedizione degli ordini: trasferendo l’attrezzatura sui polsi, si liberano le mani e gli occhi, che non devono più guardare uno schermo, e si aumenta quindi la produttività e anche gli stipendi. La supervisione tecnologica di alcune fasi del lavoro è già realtà da molto tempo – tutte cose che i nostri cervelloni naturalmente non sanno – ed è sul rischio che questo progetto si trasformi in uno strumento di controllo coattivo del lavoratore che deve esercitarsi l’intelligenza – ad averla – delle classi dirigenti. Non sulla declamazione oratoria di fanfaluche che portano al più grave e sciocco degli errori. La guerra alla tecnologia. La guerra alla tecnologia in quanto tale. Il suo ripudio a priori. Una guerra già persa, oltretutto.

Nessuno può nascondere gli enormi pericoli connessi alla rivoluzione digitale in questi anni di folle corsa verso un futuro che fa paura, nessuno può ignorare gli snodi giganteschi, esistenziali, etici che bisognerà sbrogliare rischiando di scottarsi le dita e perdere la nostra umanità, ma è proprio qui, proprio in questo punto decisivo che ci dovrebbero essere la politica e il sindacato. Il punto dove si vigila, si studia, si vaglia, si controlla. E si decide. Guardando avanti. Questo dovrebbe fare la politica. Se esistesse ancora una politica, naturalmente. E invece siamo qui tutti insieme appassionatamente - da destra a sinistra passando per il centro: questo il vero dramma - a maledire, scomunicare, interdire e vietare con la stessa ottusità caprona dei venditori di lupini di Aci Trezza e di scialatielli di Amalfi. Belli i tempi andati quando si scavava con le mani nelle cave di rena di Rosso Malpelo, ci si spostava con il carretto trainato dall’asino e si mondava il riso del padrone dalle belle braghe bianche, vero? Checché ne dicano i nostri cervelloni, l’automazione, la tecnologia e la robotica sono armi formidabili per liberare i lavoratori dalle occupazioni più faticose e degradanti e per proseguire il lungo, drammatico, sanguinoso cammino verso una società più giusta. Che si compie però affrontando i problemi, non demonizzandoli.

La verità è che pure da questa polemica emerge la nostra atavica cultura trasversale anti impresa, anti eccellenza, anti investimento, riverniciata da un ridicolo luddismo 2.0 che da una parte si avvinghia a linguaggi e tematiche già morte e sepolte da decenni tranne che nelle menti dei nostri politici, dall’altro tanfa di quello snobismo da salotto che è il termometro del vero profilo reazionario del paese. Esistono le leggi, che devono essere aggiornate alle esigenze del nuovo lavoro digitale. Esistono le istituzioni, che devono presidiare l’oggi e programmare il domani dialogando senza pregiudizi per condividere il percorso della modernità. Esiste il principio di realtà. O meglio, dovrebbe esistere. Perché invece non c’è niente. Ci sono solo chiacchiere, distintivi, fanfaroni, ciucci e masanielli da strapazzo che tuonano in campagna elettorale contro Bezos il dittatore ma che, una volta al governo, saranno i primi a leccargli le scarpe quando si presentasse la necessità di metterlo al suo posto. Perché qui il problema non sono i braccialetti al polso, ma gli anelli al naso.

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