Burocrazia più forte
di crisi e buon senso
burocrazia, crisi
e buon senso

Siamo il Paese della burocrazia e se qualcuno ha ancora dei dubbi in proposito non ha che da conoscere il caso dell’area commerciale dell’ospedale Sant’Anna. In questo ambito, rischia di diventare un caso di specie. Già perché nel nostro nuovo ospedale, a cinque anni dall’apertura, un mese fa è stata inaugurata, con tanto di taglio del nastro come nell’Italia del boom, una serie di attività commerciali. Vi si trova – anzi, meglio vi si troverà – un po’ di tutto: dal bar alla yogurteria, dalla parafarmacia alla lavanderia. Nel complesso si tratta di circa 50 posti di lavoro, neoassunti compresi. Non poco, soprattutto di questi tempi, e allora fa rabbia e desta sconcerto che passino le settimane ma i negozi – bar compreso – sono sempre chiusi perché - non è uno scherzo – manca un certificato dei vigili del fuoco che, pare, debba essere rilasciato dal comando regionale. La pratica - e la circostanza aumenta il senso di frustrazione – sta facendo il suo corso regolare ma certezze sui tempi non ce ne sono. Tanto è vero che da un paio di settimane l’avvio delle attività commerciali viene annunciato, in modo informale, e posticipato di volta in volta. Sembra sempre che stia per accadere qualcosa ma poi, puntualmente, i titolari allargano le braccia. Gli italiani, e Como in questo campo non fa eccezione, sono condannati a portare pazienza.

Tanto ai burocrati, i veri padroni di questo nostro disgraziato Paese, non importa dei soldi persi dagli imprenditori o dei lavoratori senza stipendio (solo una parte beneficia della cassa integrazione). E non importa nemmeno dei disagi dei pazienti del Sant’Anna che, in assenza del bar, hanno l’obbligo di utilizzare i distributori automatici. Ieri il sindacato ha organizzato una protesta, il timore è che se la vicenda non si risolverà in tempi brevi, qualche imprenditore faccia le valigie. La storia del certificato che non arriva è forse un caso limite, emblematico però di quanto sia malato il nostro sistema.

Non c’è procedura amministrativa, dalle tasse (quanti anni occorrono per godere di un rimborso?), alla giustizia, dal far valere i propri diritti, alla fruizione dei più semplici servizi, che si svolga in tempi brevi. Qualcuno si stupisce ancora se il Bengodi agli occhi dei nostri imprenditori continua ad essere la Svizzera? Oltre confine, a un paio di chilometri da qui, in un paio di giorni si può avviare un’attività quando da noi, prima ancora di mettercisi, occorre rivolgersi a un consulente e poi sperare, sì sperare, che prima o poi si accenda il semaforo verde dei permessi. La burocrazia limita la libertà, uccide l’iniziativa, ma è anche un concretissimo macigno sui bilanci delle nostre aziende. Il giornalista del Corriere della Sera Sergio Rizzo ha calcolato che negli ultimi sei anni, con la scusa della semplificazione, sono state introdotte 629 norme fiscali. Un paradosso in cui gode soltanto la burocrazia che campa alla grande nella giungla di leggi e leggine.

Il World Economic Forum ci ha collocato al 49° posto sul fronte della competitività. Senza guardare ai primi della classe – accanto alla Svizzera ci sono Singapore e Usa - aprire una qualsiasi impresa commerciale in Giappone, in Australia in Nuova Zelanda, in Germania, implica un paio di moduli compilati ed una tassa, che spesso è pagabile online. Tutto qui. Possiamo farlo anche noi?

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