Che cosa resta
di un colpo di pistola

Lo sparo - quello vero - lo sentirono forse qualche decina di persone, perché l’onda sonora andò subito a perdersi nel traffico cittadino. Ma lo sparo morale, conseguenza di quello fisico, fu assordante e per mesi rimbombò nelle orecchie della comunità comasca.

Non fu facile riprendersi dal colpo di pistola che, nel marzo di 10 anni fa, a Como, ferì gravemente un ragazzo di 18 anni originario dello Sri Lanka, un ragazzo che ancora oggi, tornato al suo Paese, sconta nella carne le conseguenze di quell’istante. Il suo nome - Rumesh - presto diventò un atto d’accusa per un’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Stefano Bruni, che aveva scelto di armare una pattuglia dei vigili urbani allo scopo di reprimere certi fenomeni giovanili, come quello dei writer. Il giorno dopo lo sparo, il 30 marzo 2006, La Provincia usciva con un titolo a tutta pagina “Como, vigile spara a un ragazzo: è in coma”. Uno schiaffo in pieno volto ai lettori, ma potevano esserci altre parole per raccontare quel fatto?

Il giornale decise subito che la sua posizione non poteva essere che una: contro le pistole, contro la possibilità che chiunque, di qualunque infrazione potesse essere responsabile, si ritrovasse in fin di vita in un letto del Sant’Anna. L’editoriale, firmato da Francesco Angelini, portava un titolo più che eloquente: “Fermate i Rambo”.

Ma quel colpo di pistola aveva disorientato la comunità comasca al punto di spaccarla e il nome di Rumesh - o, se si vuole, nel nome di Rumesh - incominciò una dolorosa resa dei conti tra una parte dei cittadini per i quali il «tragico incidente» - questa l’espressione usata, allora, dal sindaco - non poteva sospendere la severità nei confronti di ragazzi che, così sembrava, si muovevano pericolosamente ai confini della legge, e un’altra che vedeva nello sparo e nella difesa istituzionale impostata dal Comune l’arroganza e la freddezza di una classe dirigente incapace di ammettere i propri errori.

Fu un confronto dolorosissimo, anche crudele, la cui immagine-simbolo divenne quella del sindaco circondato da un gruppo di rappresentanti dell’amministrazione, colto a sfoggiare un sorriso da una finestra di Palazzo Cernezzi mentre, sotto, rumoreggiava la manifestazione dei giovani che avevano scelto lo slogan “Voi sparate, io disegno”. Un fotogramma non poteva aver riassunto tutti i sentimenti del sindaco Bruni di fronte a quel caso tragico, questo è evidente, ma come spesso capita esso si trasformò nel messaggio visibile, nella prova quasi, di tutto il distacco, l’incomprensione, l’incomunicabilità di una parte della città - quella delle istituzioni, ma anche quella “adulta”, insofferente al disordine e all’incertezza - nei confronti dell’altra, la componente più giovane, proiettata verso il multiculturalismo e in cerca di occasioni per esprimersi a costo di mancare di rispetto alla proprietà privata.

In cronaca, oggi, leggerete che fine hanno fatto i protagonisti di quella storia durissima, perfino troppo dura per una città civile come Como. Qui, invece, ci interessa domandarci che cosa è stato, dieci anni dopo, della città. È diventata più tollerante, ha ricavato da quell’esperienza così terribile una lezione di rispetto per la vita e una rinnovata attenzione nei confronti dei valori fondamentali della collettività?

Sarebbe inutile, e perfino ingiusto, rifare oggi processi per quanto accaduto allora. Ma sarebbe molto peggio rivivere quel trauma senza scoprire che, anche grazie a esso, la Como di oggi è, per tutti, una città migliore.

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@MarioSchiani

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