Como nell’Italia
del meglio e peggio

Alla burocrazia piace il vintage. Magari è solo una questione di moda se alcuni debiti che il Comune di Como si accinge finalmente a saldare - grazie ai fondi sbloccati, ed era ora, dal governo - sono ancora in lire. Il che significa che, a essere ottimisti, ci sono ditte che attendono di essere pagate da una pubblica amministrazione da almeno una dozzina di anni.

Tempi di attesa che, se riguardassero un privato, gli sarebbero costati di sicuro una bella causa civile e - non è escluso - pure una denuncia per truffa. Ma la burocrazia toglie e la burocrazia dà. Rispettando ritmi assolutamente personali, sui quali noi comuni mortali pare non si abbia alcun potere. La notizia, in sé, da cui trae spunto questa riflessione è positiva: entro fine anno Palazzo Cernezzi liquiderà tutte le aziende e tutti i privati che hanno svolto dei lavori per conto del Comune prima del 31 dicembre scorso e che ancora non erano state pagate.

Ma anche le buone notizie, in questo Paese che talvolta confonde l’ironia con la beffa, hanno un retrogusto amaro. Sapere che nell’elenco dei creditori delle casse pubbliche c’è chi aspetta da almeno una dozzina di anni è un dato che, da solo, potrebbe aiutare a spiegare da un lato una crisi che qui sta diventando più crisi che altrove, e dall’altro l’ansia delle ditte nostrane a prendere fatturati e bagagli e trasferirsi in Svizzera. In effetti che convenienza c’è a restare a produrre in uno Stato che con la destra ti spilla sempre più soldi per le tasse mentre con la sinistra si guarda bene dal pagarti quanto ti dovrebbe?

Una bella risposta la fornisce - leggere a pagina 13 - un giovane imprenditore comasco che spiega: «Abbiamo il dovere di difendere il nostro Paese». Ed è un’ottima chiave di lettura per spiegare ai futuri uomini d’impresa perché è un errore la delocalizzazione selvaggia verso paesi in cui il costo del lavoro è inferiore al nostro, oppure perché è giusto pagare le tasse senza fuggire verso chi ti garantisce l’opportunità di non versare più neppure un euro allo Stato italiano.

Ma detto questo è inutile tapparci gli occhi: se è vero che la maggioranza di chi elude il sistema fiscale e fa scivolare altrove la propria ditta, creando voragini di posti di lavoro e di fatturato in patria, lo fa per mero calcolo personale e spiccato senso dell’egoismo, è anche vero che c’è una fetta di imprenditori che si vede costretta a una scelta dolorosa per non soccombere.

Perché, lo sappiamo, siamo un popolo che unisce in sé il peggio ma anche il meglio. Siamo il Paese degli Schettino, ma anche della gente di Lampedusa che si getta in mare per salvare gli immigrati. La patria di quelli che ridono la notte del terremoto a L’Aquila, ma anche dei pompieri che si infilano nelle case pericolanti per cercare i sopravvissuti. E quindi accanto ai furbetti del fisco ci sono persone che ci provano a resistere, nonostante

vengono quotidianamente strangolate da una tassazione insensata e figlia di decenni di allegra gestione delle casse pubbliche.

A volte la cronaca regala momenti che sembrano pensati apposta per assurgere a episodi chiave, fermi immagine che hanno la forza di istanti chiave. Sarebbe bello pensare che il pagamento di tutti i debiti arretrati del Comune di Como possa essere una di quelle istantanee. Una sorta di anno zero della burocrazia. Un’occasione per ripartire cancellando ciò che non va. Sogno? Forse. Ora scusate, è suonata la sveglia. La ricreazione è finita. Torniamo con i piedi per terra.

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