Como, se il Comune
rinuncia all’impresa

Che cosa c’è tra il Comune e il mondo delle imprese? A Como dopo un periodo sereno una teoria di nubi ha oscurato il cielo e rabbuiato il rapporto. L’idillio non c’è mai stato. L’indifferenza nemmeno. Una cortese distanza sì. Recentemente la lontananza educata e formale si è tramutata in gelido distacco. Alcune decisioni dell’Amministrazione Lucini sono state interpretate come azioni ostili. La cultura anti impresa soffia anche in Comune? Il centrosinistra di governo non riesce a fare il salto mentale e rimane prigioniero di ideologie sepolte? Ci sono alcune contraddizioni. E vicende come Acsm, Comodepur, Tessile che inducono a pensare che neppure nell’algida Como la politica sappia confrontarsi con il mondo delle imprese e con il “fare” impresa senza rischiare di scottarsi. Pericoli che si possono evitare solo restando fermamente lontani dalle tentazioni di potere, dalle seduzioni clientelari e dagli interessi di bottega.

Se la “ditta” politica prevale su quella civica e la visione partitica prevarica su quella amministrativa c’è poco da fare. Sarà forse per questo che le scelte del Comune non sembrano collegarsi a un filo coerente. Non si coglie un indirizzo programmatico e si va ora da una parte e ora dall’altra.

Prendiamo il caso di Villa Erba, nata per le rassegne tessili e diventata centro espositivo. La società di cui il Comune di Como detiene il 7,3% del capitale ha chiesto ai soci di dare l’assenso alla domanda alle banche di prorogare la scadenza dei mutui dal 2025 al 2031 per rendere meno pesante il rimborso. Operazione di fatto a costo zero per l’amministrazione. Assenso accordato. Al contrario con il Tessile di Como di cui il Comune ha appena l’1%. La società, che ha svolto un ruolo virtuoso per lo sviluppo delle imprese tessili, per coprire le perdite ha chiesto ai soci un aumento di capitale. Il Comune di Como avrebbe dovuto sborsare appena 4mila euro. Eppure ha detto di no. Nè si è impegnato a trovare qualcuno, anche privato, che subentrasse nell’impegno.

Contraddizioni? Sarà.

Un atteggiamento dichiaratamente di rottura invece c’è stato con Comodepur, la società consortile di depurazione. Un fiore all’occhiello della città, nato in un’epoca in cui nel pubblico e nel privato c’erano personaggi illuminati e lungimiranti. Gli imprenditori comaschi, primi in Italia, negli anni 70 hanno dato assieme al Comune di Como al primo depuratore di acque industriali e civili. Le imprese hanno la maggioranza assoluta del capitale eppure alla parte pubblica è riconosciuta la maggioranza nel consiglio d’amministrazione. Per far funzionare meglio la società è stata chiesta una modifica dello statuto che però giace nei cassetti pubblici. È sorto un contenzioso tra il Comune di Como e gli imprenditori sul futuro della Spa. E si assiste al tentativo della parte pubblica di accaparrarsi il “tesoretto” di svariati milioni di euro accantonato con le quote pagate dalle aziende.

Fin qui le relazioni quasi tempestose tra Comune e imprenditori. La visuale non migliora molto se si osserva il Comune nel suo modo di fare impresa. Si vuole cambiare strategia sulla Csu (Centro servizi urbani, quota 77%) che da braccio operativo esterno diventerebbe parte interna all’amministrazione con le limitazioni delle regole pubbliche. Non meglio è andata nella vendita delle due farmacie comunali di Muggiò e Sagnino. che producevano utili (solo il Comune di Roma riesce a perdere soldi con le farmacie). Cedute, ma poi il Comune è stato condannato a riassumere due farmacisti.

C’è da chiedersi, dunque, come andrà per Acsm. Il Comune di Como ha il 24,8% della Spa. Uno dei grandi soci, A2A (controllata dai Comune di Milano e di Brescia) vuole comprare le quote per controllare la società che è quotata in Borsa e produce utili (quasi un milione l’anno per il Comune di Como). Vendere o non vendere? Cedere il controllo di quella che fu l’Azienda comasca servizi municipali o mantenere il capitale, la politica di indirizzo e incassare gli utili ogni anno? Anche qui scelta difficile. L’importante è che venga fatta una scelta nell’interesse della città e salvaguardato il bene dei comaschi. L’Acsm è un patrimonio loro, non di un sindaco o di un consiglio comunale pro tempore.

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