Cultura: a Como
servono altri stimoli

«Non crediamo in Como città di cultura». Calma, non è un giudizio divino. E nemmeno del ministero che deve decidere a chi assegnare lo scettro di capitale culturale del Paese nei prossimi due anni. Però la considerazione è importante e utile è ricordarla in questa fase, in cui il capoluogo lariano sta misurando limiti e ambizioni per darsi un futuro come città non più, e non solo, della seta, ma anche del turismo culturale. La pronunciò Maria Corti nel 2001, a Pellio, parlando a nome di “noi intellettuali”, intendendo i numerosi amici che la scrittrice/filologa per tante estati aveva raccolto attorno a sé nel piccolo centro intelvese, regalando anche migliaia di libri e incontri pubblici alla piccola biblioteca che poi le è stata intitolata. Passarono da Pellio, purtroppo nell’indifferenza dei più, Umberto Eco e Giovanni Spadolini, l’accademico della Crusca Angelo Stella, poeti tra i più grandi del secondo Novecento e di questo “primo 2000”, come Franco Loi e Fabio Pusterla. Alcuni di questi amici si ritroveranno domani in valle per celebrare il centenario della Corti, che era nata il 7 settembre del 1915, e per cercare di dare finalmente una destinazione culturale alla casa/castello, il Carlasc, che morendo (e sono già passati 13 anni) lasciò all’Università di Pavia.

Quale migliore occasione per ricordare le riflessioni dell’autrice dell’“Ora di tutti”, nonché fondatrice del Fondo manoscritti di autori contemporanei dell’ateneo pavese e maggiore dantista del suo tempo, sull’evoluzione culturale di Como, dove alla fine degli anni Cinquanta aveva anche insegnato al liceo Volta. «A Como - disse, ricordando quei tempi - non si organizzava nessuna manifestazione, i genitori non venivano nemmeno a informarsi su come andassero i loro figli». «La città di oggi - aggiunse - non è cambiata molto, con l’eccezione di qualche giovane volenteroso». E, quindi, uscì con la frase riportata all’inizio, di cui è importante ricordare anche il finale: «I comaschi lo devono sapere, in modo che sia uno stimolo per fare meglio».

I “giovani” di allora (a quelli di oggi che si sono aggiunti: vedi Wow Festival) hanno raccolto questo ed altri stimoli, producendo nell’arco di almeno 15 anni l’apertura e la crescita culturale della città, che finalmente comincia ad essere percepita da tutti. Anche da quelli che «pensano soli ai danée», citando ancora la Corti, e che cominciano a sospettare che il ministro Tremonti non avesse detto proprio il vero affermando che «con la cultura non si mangia» e ora vogliono capire se valga la pena investire in quel settore. Per effettuare “l’accelerazione” necessaria, e dichiarata al meeting per Como Capitale della Cultura che si è tenuto ad Expo, affinché la rete di operatori culturali non rimanga volontaristica, ma diventi un sistema integrato con le istituzioni e le altre categorie produttive, nonché con gli spazi urbani, non bisogna smettere di guardare fuori da Como, per capire come ci vedono gli altri, che cosa li appassioni della nostra città, e per prendere esempio da chi ha affrontato e vinto le sfide con le quali ci stiamo confrontando in questo momento.

C’è bisogno di altri “stimoli” e oggi ve ne offriamo un paio su “L’Ordine”, che, da quando è diventato inserto domenicale de “La Provincia”, ha fatto dell’approfondimento e della riflessione “attiva” e “produttiva” una sua caratteristica. Due firme importanti, con un’esperienza nazionale e internazionale alle spalle, affrontano proprio i temi chiave dello sviluppo urbanistico/culturale di Como e della ricaduta (anche economica) dei festival sulle città che investono in questo tipo di manifestazioni. Jacques Gubler, professore emerito di Architettura, offre un’appassionata critica costruttiva alla candidata capitale della cultura: riconosce il valore dell’unità paesaggistica tra Como, Cernobbio e Brunate e invita a investire nelle peculiarità d territorio (Volta, il suo tempio e il suo faro; la Pinacoteca e tutto quello che Como espresso nel campo dell’arte e dell’architettura del ’900; il bacino lacuale e la sua navigabilità quotidiana). Gian Mario Villalta, scrittore e poeta per Mondadori, ma in questo caso soprattutto direttore artistico del festival Pordenonelegge, racconta come in 16 anni (solo uno più di ParoLario) la città friulana abbia costruito una kermesse che coinvolge tutte le componenti sociali (associazioni culturali, ma anche istituzioni, categorie economiche, scuole/università...) e produce 5-7 euro di indotto per ogni euro investito. E parliamo più o meno di un milione di euro di bilancio e di 294 incontri in 5 giorni con 390 autori. Più o meno gli stessi numeri del Festivaletteratura di Mantova (357 autori ma diluiti in 350 incontri), che peraltro è tra le 10 città in lizza con Como per il titolo di reginetta della cultura italiana. In termini di eventi, significa che Mantova (e Pordenone) fanno in 5 giorni quello che Como ha prodotto con l’intero programma del “Canto della terra” 2015, ovvero di tutti gli eventi tenuti da maggio a ottobre. E finanziati (per la parte legata a bandi pubblici) con un milione di euro, lo stesso messo in palio dal ministero per la Capitale della cultura. Si tratta di stimoli, non ci critiche, di cui è bene fare tesoro con molta concretezza. Per esempio, decidendo subito (da parte del Comune), almeno dove e quando si potrà svolgere ParoLario l’anno prossimo. Ché se vogliamo i 70 autori stranieri (e il pubblico, possibilmente pagante) di Mantova bisogna muoversi almeno un anno prima.

© RIPRODUZIONE RISERVATA