Finito lo scandalo
rimane il circo

Di solito funziona così. Quando un magistrato si sveglia dal torpore e inizia a indagare su un appalto pubblico, si sa subito come andrà a finire: basta che alzi il primo coperchio a caso per beccare uno statista con il sorcio in bocca. E se il tale poi collabora, tempo due secondi e viene giù tutto. Politici, imprenditori, finanzieri, sindacalisti, cooperanti, dame di carità, ex terroristi, reucci di borgata, sciupafemmine in disarmo, maghi del biliardo: un’interminabile filiera di ruberie, mazzette, estorsioni e abusi e ricatti e schifezze dove tutto vale tutto e dove destra e sinistra, che saranno pure due categorie superate e ottocentesche ma che almeno fino a trent’anni fa qualche cosa significavano, diventano l’aglio e il prezzemolo di un minestrone purulento di cui le recenti gesta romane rappresentano solo l’ultimo e più eclatante esempio.

Ma il punto centrale non è questo – tali e tante ormai ne abbiamo viste - quanto piuttosto il suo dipanarsi, la sua evoluzione nell’immaginario collettivo. Scoperto lo scandalo, parte il circo. Paginate e paginate sui giornali, talk show su talk show in televisione, alti lai, fiere indignazioni, richieste di dimissioni, autosospensioni a furor di popolo, dotte analisi sociologiche, penetranti diagrammi antropologici, ficcanti proposte costituzionali indispensabili per mettere fine alla vergogna mazzettara e retroscena e indiscreti e fuorionda e il riemergere dell’attualissima questione morale (“ah, caro lei, quando c’era Berlinguer…”), il rimpianto della nobile stagione democristiana (segnata dall’immagine del triste e coltissimo Martinazzoli che leggeva Manzoni mentre la corrente avellinese del partito si mangiava pure le gambe del tavolo), la malinconia per i tempi eroici di Mani Pulite (quando si sbatteva la gente in galera fino a che non confessava e se poi qualcuno veniva assolto sei anni dopo, chissenefrega), il regolamento di conti tra partiti vecchi e collusi e movimenti allo stato nascente vergini e aitanti. E poi lo schizofrenico pulsare della piazza con le sbandierate, sceneggiate, santorate, savianate de “ ‘o scrittore” impegnato e le monetine e la suburra, il popolo bue, la condanna ai lavori forzati anche se il processo non era stato non solo celebrato ma neppure istruito e tutto il resto di questa allitterazione del populismo straccione che fa tanto bene all’autostima dei frustrati e grazie alla quale – come ricordava uno scettico blu come Montanelli - sono state costruite mirabolanti carriere politiche e giornalistiche. E che pose. Che toni. Che occhi di bragia. Quasi come nel mitico 1993 e sacchi di città e capitali corrotte e nazioni infette e grandi retate e tutti in galera, perché qui la gente non ne può più. Pensateci bene. Tangentopoli, Affittopoli, Rimborsopoli, Calciopoli: sempre il solito refrain.

Poi, però – visto che questo non è il paese di Robespierre, ma quello di Pulcinella - dopo tanto urlare e tanto sventolare stracci e proclami e ditini inquisitori, da noi a un certo punto, puntuale come la morte, arriva sempre un momento topico, sinuoso e impercettibile. Un momento magico. Qualcosa che non si può esprimere a parole, ma che tutti quelli che hanno praticato uno sport a livello agonistico colgono nell’aria: il momento in cui cambia l’inerzia della partita. La ruota gira, lo spirito dei tempi muta poco a poco il suo verso afflosciando le vele così turgide e arroganti fino a pochi istanti prima, la sazietà, la nausea, l’ipertrofia da indignazione viene sommersa da una noia moraviana, una mollezza da ponentino, un’accidia mediterranea che porta in modo lento ma implacabile a quel rigurgito che nei bar, nelle piazze, nelle case - e nelle redazioni dei giornali – ufficializza la “morte” di una notizia: “Ancora con ‘sta storia della mafia a Roma? Uff, che palle…”. Il dito inizia a prudere sul telecomando e quando alla fine, con un pizzico di vergogna ma con sollievo infinito, uno passa da Floris ai trentaduesimi di Coppa Uefa tra Standard Liegi e Feyenoord il gioco è fatto. L’era del Termidoro è iniziata.

Non c’è niente da fare. Nessuno può scappare dalla propria storia, dalla propria vocazione, dal proprio codice genetico. Il richiamo della foresta è così forte da far svanire il rigore algido di Calvino o Robespierre – figli di culture terribili e tragiche lontanissime da noi – per far invece riemergere dalla feccia della nostra civiltà cialtrona il baffo nero, il mandolino, il mettiamoci d’accordo, la pacificazione, l’amnistia, il così fan tutti, l’etica spaghettara e tutto il resto del portato di un popolo servo fin nelle radici, che negli ultimi duemila anni è stato invaso da tutti e con tutti ha fatto i più bassi compromessi, che non ha mai finito una guerra con lo stesso alleato con cui l’aveva iniziata, che non a caso tiene legati da un filo rosso Sciaboletta e Schettino e per il quale la furbizia non è il più vile dei difetti, ma la più gigionesca delle qualità. E va bene, ho preso una mazzetta. E che sarà mai?

E se è così – ed è così – da lì in avanti finisce la politica e inizia il cabaret. La grande inchiesta diventa materia da rivista. La pupa e il boss, il calciatore e il reuccio della banda della Magliana, il presentatore e l’estorsore seriale e i locali della Roma male e il gergo criminale e il romanesco inglesizzato e gli spassosissimi soprannomi della banda dei quattro: Er Cecato, Er Maialetto, Er Spezzapollici e naturalmente – poteva forse mancare? - Er Forfora. E così partono le battute, le freddure, i tripli sensi, il cinismo da osteria e il meraviglioso popolo del web, che in quanto a dar fiato alle pirlate non ha eguali nella storia dell’umanità, a motteggiare e sghignazzare e postare fino a quando la tragedia inizia a trascolorare inesorabilmente nel grottesco, nel fellinismo di maniera, nel pasolinismo d’accatto. Tema da tabloid gossipparo, da trasmissione trash, da ospitata all’Isola dei famosi. Quanto vogliamo scommettere che anche stavolta finirà così?

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@DiegoMinonzio

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