Giustizia anche
per chi è vittima

La prima volta che Emanuele La Rosa tentò di uscire di cella, pochi giorni dopo l’arresto per il macabro accanimento suo e del genero Alberto Arrighi sul corpo di Giacomo Brambilla, liquidò la notte di orrore nell’armeria di via Garibaldi prima e nella pizzeria di Senna Comasco poi con una frase che lasciò a bocca aperta gli stessi giudici: «Ho fatto una sciocchezza».

Ma una sciocchezza è lasciare l’auto in sosta sopra un marciapiede oppure perdere le chiavi di casa al supermarket, non mettere la testa di un uomo in un forno, dopo aver tenuto il corpo mentre il genero ne faceva scempio. Eppure, nonostante la totale assenza - come ha raccontato ieri al nostro giornale la vedova di Giacomo Brambilla - di un gesto di umanità, come chiedere perdono per quanto commesso («anche se non ci sono scuse che reggano», ebbe modo di ammettere davanti a un giudice lo stesso Alberto Arrighi), Emanuele La Rosa ha ottenuto il beneficio di scontare fuori dal carcere la sua pena.

Una decisione tecnicamente ineccepibile. Che spalanca le porte sull’eterna diatriba su quello che davvero è giustizia. Perché se è innegabile che il ricorso all’affidamento ai servizi sociali, con la possibilità per i condannati a pene sotto i tre anni di pagare il proprio debito con la società rendendosi utili, è un’affermazione di civiltà e una conquista che - soprattutto sul lungo termine - potrebbe ripagare tutta la comunità, è anche vero che le emozioni delle vittime non possono non avere alcuna voce in capitolo.

La questione in buona sostanza, al di là dei tecnicismi, è molto pratica: si può concedere a un uomo che ha fatto quel che ha fatto Emanuele La Rosa il beneficio di non tornare in carcere a scontare la sua condanna anche a fronte del totale disinteresse dimostrato in questi tre anni e mezzo nei confronti della vedova e del figlio di Giacomo Brambilla?

A pelle la risposta viene da sé. Perché diventa lecito domandarsi quanto potrà mai essere sincero l’impegno sociale di un uomo che non ha sentito il bisogno di fare lo sforzo per tentare la strada di un pentimento sincero e pubblico, quantomeno nei confronti delle vittime.

Un esperto di diritto penitenziario come il giudice Giuseppe Battarino spiega sulle colonne di questo giornale che il Tribunale di sorveglianza concede l’affidamento in prova a quei condannati che si prevede possano rispettare le prescrizioni riguardanti anche i comportamenti attivi - come ad esempio il risarcimento - da tenere nei confronti delle vittime.

La speranza, di fronte a una decisione ai più incomprensibile, è che il provvedimento dei giudici di sorveglianza non si limiti a imporre a La Rosa il rispetto degli obblighi materiali nei confronti della comunità religiosa presso la quale dovrà prestare servizio di “volontariato”. Ma che preveda una serie di azioni concrete anche - anzi: soprattutto - a favore di chi ancora oggi piange la morte di Giacomo Brambilla.

Sono passati tre anni. Ma l’unico gesto di pentimento dell’uomo che ha scritto il biglietto “non aprire sta cuocendo” e che poche ore dopo aver messo la testa di un uomo nel forno della pizzeria è andato a sciare come nulla fosse, è: «ho fatto una sciocchezza». Impossibile non prendere le parti di Domenica Marzorati, l’ex moglie della vittima, quando dice: «Non covo sentimenti di vendetta. Ma non abbiamo mai avuto neppure mezza parola di scuse, una lettera, due righe. Concedergli una chance è irriguardoso».

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