Giustizia sì ma ci vuole
anche buon senso

L’arzigogolo giuridico con cui la corte di Cassazione ci restituisce, almeno in parte, un redivivo don Marco mette un po’ i brividi. Nessuno desiderava vendetta, è evidente, e però tante, troppo volte, comprendere le decisioni dei giudici diventa impresa ardimentosa, anche per chi non ama in genere mettere in discussione le sentenze, nella convinzione che in un sistema democratico consolidato esse siano sempre, se non perfette, quantomeno le migliori possibili.

Nel caso di Mangiacasale - che non è più “don” essendo stato ridotto allo stato laicale, la restituzione del fascicolo alla Corte d’appello di Milano (che lo aveva condannato a tre anni, cinque mesi e venti giorni) scivola su un filo davvero sottile. La legge dice che un rapporto sessuale con un quattordicenne – come nel caso delle parrocchiane di San Giuliano – non è di per sé un reato, a meno che ovviamente la vittima sia non consenziente (e allora lo è anche nel caso di un quarantenne). La differenza, tra la perseguibilità e la non perseguibilità, la gioca allora il ruolo della controparte, la sua mansione rispetto alla società e, soprattutto, rispetto alla parte debole, che si ritiene soccombente. Se è un signor nessuno non sarà imputabile, se invece ricopre un ruolo di responsabilità - come può essere quello di un docente, di un educatore o, appunto di sacerdote -, allora la legge dovrà chiedergliene conto.

Ora: sia il tribunale di Como sia quello di Milano, in appello, avevano ritenuto che l’ex sacerdote rientrasse a pieno titolo nel novero degli adulti chiamati a esercitare proprio un ruolo di questa natura, sorta di guida cui peraltro mamme e papà – e non è un dettaglio secondario – affidavano in piena serenità l’educazione e il destino dei loro figli.

La Cassazione fa un distinguo. Dice: tutto vero fintanto che l’imputato fu parroco, tutto da rivedere a partire dalla data in cui, smesso il ruolo di prevosto, Mangiacasale assunse quello di economo della Curia, dedicandosi a una attività che non aveva più nulla a che fare con il suo ruolo di maestro e di pastore del gregge di adolescenti che frequentavano l’oratorio di San Giuliano (peraltro uno dei più vitali del centro città). Bizantinismi. Perché il sacerdote rimase sacerdote, continuò a indossare la sua talare anche dandosi ai libri contabili, soprattutto continuò ad abitare dove aveva abitato quand’era parroco, e cioè in un appartamento annesso alla chiesa. I ragazzi lo incontravano tutti i giorni, forse anche più volte al giorno. E se non c’è motivo di dubitare delle accuse che gli furono mosse - ché del resto fu lo stesso Mangiacasale ad ammettere per primo gli addebiti -, e se non c’è motivo per non ritenere “giusta” la sentenza di condanna emessa a Como e ratificata a Milano, allo stesso tempo è ingiusto che quei tre anni, cinque mesi e spiccioli - scontati senza un giorno di carcerazione - si riducano per una lettura cavillosa. Certo, a tutti noi piace credere anche in quella giustizia che qualcuno starà senz’altro esercitando, in questo esatto istante, in un posto un po’ migliore di questo, uno di fronte al quale ognuno - a partire da chi scrive - dovrà prima o poi presentarsi.

Ma nell’attesa sarebbe bene mettere da parte gli arzigogoli, e ricordarsi, seduti su uno scranno della Cassazione, anche di noi, del male e del bene, soprattutto del buon senso, e poi di quelle ragazzine e poi dei loro genitori.

L’”altro” Giudice, l’unico titolato a impugnare anche le sentenze di Cassazione, ne sarebbe probabilmente contento.

© RIPRODUZIONE RISERVATA