Governo tra Giggino
e Rousseau. Allora il Pd?

E allora il Pd? Si finisce sempre lì in quella domanda maledetta che tormenta da sempre il partito. Allora i dem che fanno di fronte alla sortita di Giggino Di Maio che nei confronti del governo giallorosso tornato eventuale ha lo stesso entusiasmo di chi deve affidare al boia la propria capoccia? Perché il Nazareno per salvare la fragile creatura del Conte due finora ha digerito qualunque cosa, a cominciare proprio dal premier. “Discontinuità”, aveva tuonato Zingaretti, leader di una forza politica che secondo una geniale definizione di Massimo Cacciari è un partito che ha un segretario che non ha un partito, salvo poi dover deragliare verso le subordinate che in fondo sì il presidente del Consiglio è sempre quello che ha “bollinato” tutte le decisioni della Lega, ma poi il governo non è mica solo il premier, c’è la squadra, il programma, signora mia. Ma sì se poi però per la squadra, i Cinque Stelle si arroccano attorno a Di Maio ministro e vice premier, la discontinuità rischia di trasformarsi in una di quelle insegne luminose in cui si accendono solo alcune lettere: in questo caso le prime tre cominciano a lampeggiare con intermittenza. Dai va bene, non stiamo a fare troppo i sofisti, si saranno detti quelli del Pd: tanto c’è il programma che stabilisce tutto, diventa lo spartito che i ministri sono costretti a seguire e lì ci butteremo dentro una tonnellata di discontinuità. Poi compare Giggino e ti fa sapere subito che i decreti sicurezza, le due medaglie che brillavano sul petto di capitan Salvini, non si toccano. E ciao.

Insomma questa crisi non si smentisce e conferma il sospetto che dietro ci sia un abile autore di telenovela, probabilmente foraggiata da Enrico MaratonaMentana che, in ogni puntata in apparenza scontata, ti infila il colpo di scena. Quello di ieri rischia di riportare lo storytelling indietro, alle elezioni anticipate, addirittura al ritorno del governo gialloverde con Di Maio a palazzo Chigi. Impossibile? Forse, ma chi può dirlo? Magari la piattaforma Rousseau, un altro colpo sotto la cintura che i Cinque Stelle hanno tirato all’alleato (?). Perché può un partito come il Pd accettare la dematerializzazione della democrazia istituzionale, lo svilimento del Parlamento, la messa in mora del presidente della Repubblica? La risposta sembra scontata. Oppure di fronte al rischio di far saltare tutto manderà giù l’ennesimo boccone indigesto? E poi, aspetto non trascurabile, la volta scorsa, in occasione del varo del governo tra pentastellati e leghisti al giudizio degli iscritti a Roussean fu sottoposto solo il contratto. Insomma si evitò il vulnus istituzionale annunciato questa volta.

Il vero mistero racchiuso nelle pieghe di questa soap opera è però nella domanda: chi comanda davvero nei Cinque Stelle? Conte, Di Maio o Beppe Grillo. Perché nel caso delle risposte A e C, come sembrerebbe. non ci sarebbe tanto da sfrugugliare: il governo si farebbe con o senza Giggino. Ma se davvero quest’ultimo è il capo politico e la sortita dei venti punti non è solo pressione nei confronti dell’alleato per confermare il suo posto al sole, l’affare diventa complesso. Il sospetto è che l’attuale ministro alle Attività Produttive stia solo giocando a poltronissima, il che rappresenterebbe un sollievo da una parte perché il governo nascerebbe (in questi casi un compromesso si trova sempre) ma anche una preoccupazione dall’altra: un esecutivo che arriva nelle condizioni che conosciamo tutti, non può essere il risultato di un gioco al ribasso. Altrimenti durerebbe poco e soprattutto non potrebbe combiare gran che. I primi a comprenderlo sono stati i mercati. Subito dopo le parole di Di Maio la borsa ha virato in negativo e lo spread è tornato a salire. Significa che la credibilità conquistata nei giorni scorsi con l’avvio delle trattative e il conferimento dell’incarico a Conte comincia a venire meno. E allora il Pd? Dalla risposta stavolta dipende molto.

@angelini_f

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