I 7 giorni che hanno
cambiato tutto

In sette giorni – dal 26 maggio al primo giugno – è cambiato tutto. Ciò che era sospetto, è diventato concretezza. Ciò che era voce, è diventata notizia. Nel giro di sette giorni Como ha scoperto che la sua classe dirigente, di oggi e di ieri, ha non poche risposte da fornire alla magistratura. Magari le darà, limpide e nette - non siamo noi a dover emettere le sentenze, ci mancherebbe altro - ma intanto ciò che potremmo definire coscienza collettiva della città si trova davanti a uno scenario che, per quanto cerchi ancora conferma, genera profondo sconcerto.

Dal 26 maggio scorso Stefano Bruni, sindaco per dieci anni tondi, è a San Vittore, accusato di bancarotta concordataria e fallimentare e di abusivismo finanziario. Nulla e poi nulla che riguardi la sua attività di amministratore del Comune di Como, sia chiaro, ma impedire ai cittadini di formarsi nella testa interrogativi - non giudiziari ma politici, non morali ma storici - su tanta parte della gestione pubblica sarà impossibile. Ieri è stato invece accompagnato in carcere un dirigente del Comune, Pietro Gilardoni, e un altro, Antonio Ferro, risulta assegnato agli arresti domiciliari. Questa volta, i magistrati puntano direttamente all’amministrazione della città: l’indagine riguarda gli appalti pubblici e sarebbe partita esaminando le carte del famoso nonché famigerato cantiere delle paratie.

Dietro le macerie del lungolago si profilano insomma quelle di una classe dirigente, tecnica e politica, dalla quale la città cerca senza fortuna di smarcarsi. È significativo, sotto molti aspetti, che proprio mentre la Guardia di finanza e il procuratore della Repubblica firmavano le carte per procedere con i gravissimi provvedimenti di cui sopra, i cittadini, tanti cittadini, firmavano un altro documento, non così ufficiale ma altrettanto pieno di conseguenze: la cartolina della nostra campagna per convincere Renzi a nominare un commissario che, al di sopra di una sempre più sospetta palude amministrativa, faccia ripartire il cantiere delle paratie e restituisca alla città, con il lago, la sua identità geografica, storica, sociale e, perché no?, economica e turistica.

Comprendiamo oggi – fatte salve le cautele sull’esito finale delle inchieste – che Como ha bisogno di ritrovare qualcosa perfino di più importante del lago: l’immagine e la natura stessa di una città perbene. A pensarci, gli anni in cui Como poteva vantare amministratori molto vicini agli ideali di efficienza e onestà non sono poi così lontani. Se ci è permesso, vorremmo leggere nella partecipazione di massa alla campagna “Rivogliamo il nostro lago” un desiderio di ritrovare anche quegli uomini e quel clima: personaggi con cui si poteva discutere e litigare ma che non concedevano dubbi circa la loro correttezza e non sollevavano perplessità sulle loro credenziali amministrative.

Non possiamo aspettarci che qualcuno dall’alto – non Renzi, non Mattarella, non i marziani – ci mandi un commissario che possa riscattare, oltre al lungolago, anche l’intera cultura politica della città. Dovranno pensarci i comaschi. Da sette giorni a questa parte, è più chiaro che mai.

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