I secoli giovani
del nostro teatro

Gli hanno fatto una di quelle torte per le quali, si direbbe con una battuta, ci vuole la concessione edilizia. Lo sforzo valeva l’occasione: i duecento anni del teatro Sociale di Como.

Poche altre istituzioni cittadine possono dirsi altrettanto longeve. Il lago è più antico, questo è vero, ma fino a poco tempo fa se ne stava nascosto dietro un muro, poi diventato una palizzata, e solo da qualche giorno è tornato a farsi vedere grazie a un reticolato che in circostanze normali ricorderebbe gli orrori della guerra di trincea e a Como ha invece il respiro di una liberazione.

Il teatro Sociale è sempre stato lì. A lungo solleticato al naso dal pennacchio di un cedro, oggi ancor più imponente visto che tra sé e l’abside del Duomo ha messo il vuoto di una piazza nuova di zecca.

Ma il teatro non si è limitato a restare, atteggiamento che appartiene a molte cose comasche, irriducibili nel sopravvivere a se stesse a dispetto della loro incongruenza: no, il Sociale è sempre stato vivo, caratteristica, questa, non del tutto scontata tra le istituzioni locali e le persone che in città rivestono un qualche ruolo. Le finestre della sala le abbiamo viste illuminate sia che vi si proiettasse un film, come usava qualche decennio fa, sia si mettesse in scena, la mattina, una recita per le scolaresche e, la sera, lo spettacolo affidato a un gran nome. Più recentemente, il portone si è aperto perché sul palcoscenico potessero ritrovarsi i pretendenti alla carica di sindaco.

«Stasera al Sociale» è una delle frasi ricorrenti a Como. L’abbiamo detta un milione di volte e, nel giornale, l’abbiamo stampata più volte ancora: grazie al rotondo anniversario festeggiato in questi giorni, ci rendiamo conto che razza di solido edificio tutti quei «stasera al Sociale», uno per volta, con pazienza e tenacia, hanno saputo erigere.

Sarebbe però triste celebrare un compleanno tanto ingombrante se, per disavventura, la salute del vegliardo fosse declinante. Così non è: grazie alla direttrice Barbara Minghetti, ai suoi collaboratori e alla loro capacità di dialogare con le forze della città, il teatro ha celebrato se stesso nel migliore dei modi. Con la riapertura dell’Arena. Con i Carmina Burana. Soprattutto rinnovando un legame: quello tra il teatro e il suo pubblico, tra la sala e la città, in modo che, nell’eleganza dei velluti, degli ori e degli stucchi, i comaschi possano sempre contare su un luogo nel quale ritrovare se stessi, non importa quali durezze, quali scontri e quali delusioni vadano sperimentando durante il giorno.

A tutti i comaschi indistintamente il Sociale, per duecento anni, ha regalato quel momento in cui la luce del gran lampadario incomincia a sfumare, le ombre scendono nella sala e il palcoscenico attira su di sé l’attenzione come un promettente altare. È un momento che non può, banalmente, essere definito magico perché magico non è affatto: è qualcosa di più. Un istante di grandissima civiltà e di lontana cultura, di reciproco riconoscimento e di quieta riconciliazione. Un momento che, sorprendendoci naufraghi di mille avventure, reduci da mille travagli e divisi da infiniti risentimenti, ci invita con dolcezza a ritrovare la nostra capacità di condividere, partecipare, ascoltare, stupirci, commuoverci e imparare.

Se vi sembra poco, allora per voi duecento anni di Sociale non sono niente. Per noi sono due secoli che è valsa la pena vivere.

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