Il calcio eterna
metafora dell’Italia

Uno dei ricordi in bianco e nero dell’ultima generazione che li ha, è quello di una nazionale di calcio presa a pomodorate al ritorno da un mondiale in cui aveva ottenuto una vittoria con la Germania (allora Ovest) in una partita di cui ancora si parla e chiuso al secondo posto, sconfitta da uno dei più forti Brasile di sempre.

Immagini riaffiorate nel confronto, stridente, con l’accoglienza ricevuta ieri da Conte e i suoi, al rientro da un europeo perso ai quarti con la Germania che, come ha ricordato Buffon, ha sbagliato tre rigori su cinque. Paradossi del calcio e dell’Italia che quando si accosta al pallone preso a pedate diventa ancora più paradossale di quanto non sia di solito. Ed è tutto dire.

Perché appare incredibile oggi, pensare che sia stato uno dei commissari tecnici più antipatizzanti della storia del nostra calcio a rendere amata una nazionale povera e dai, alla fine neppure tanto bella. Più amata di quella dell’impresa dell’Azteca di cui sopra, quasi alla pari dei campioni del mondo 2006, al di sotto solo degli eroi di Spagna riportati a casa da Pertini sull’aereo presidenziale dello scopone con Bearzot, Zoff e Causio.

Già Conte. Quello del parrucchino, delle scommesse del marchio juventino (e, la cosa più odiosa, vittorioso con i gobbi) impresso sulla pelle. Il traditore della patria che ha ceduto ai milioni del Chelsea di Abrahomvic. Chi se lo ricorda più? Nessuno. Per fortuna la memoria degli italiani è capace di prodigiosi reset.

Perfino Tavecchio, il presidente federale trasfigurato in macchietta alla prima uscita pubblica, quello delle banane, il sessista, appariva un novello Artemio Franchi, dirigente talmente prestigioso da avere due stadi intitolati. All’attuale numero uno di Federcalcio non toccherà probabilmente tale onore, ma alla fine Conte l’ha scelto lui. Sono già passate in cavalleria (salvo gli inevitabili sfottò nel far west dei social media) perfino le spacconate dal dischetto di Zazà e Pellè che in altri tempi sarebbero stati crocifissi come Fantozzi in sala mensa. Certo, fosse ancora tra noi il mitico giornalista romano Ezio De Cesari (nemico giurato di ogni ct che non prendeva in considerazione Roberto Pruzzo), qualcosa su El Shaarawy l’avrebbe tirata fuori.

Ma allora qual è il fascino di questa italietta, il cui risultato nell’europeo sarà presto relegato nell’oblio? Forse la somiglianza con l’altra italietta. Entrambi, il calcio e il paese, sono in crisi. E tutte e due cercano di farcela all’italiana: cioè mettendocela tutta e arraggiandosi. Perché l’Italia e gli italiani danno il meglio di loro quando sono considerato al tappeto e il peggio se pensano di star bene, come agli ultimi mondiali dei “rottamati” Cassano e Balottelli. Già perché Conte, alla fine, è stato un grande rottamatore, forse più vicino al Fulvio Bernardini del 1974 che non a Matteo Renzi. Però la lezione che ci lasciano questi europei può essere una buona base per una ripartenza dalla crisi che in mezzo a tante nubi fa intravvedere qualche spiraglio di sereno.

Quando ci si tira su le maniche, si lavora insieme, uno vale uno (e non solo come slogan), si riesce a essere umili, finisce che magari non si porta a casa niente, come è successo agli europei ma si migliora lo spirito e si fa nascere una speranza. Di questi tempi non è poco. E poi un’altra lezione che arriva dall’Italia del calcio è che le spacconate, anche quando il vento sembra soffiare a favore, è meglio evitarle, perché si finisce per pagarle. Buona metafora a tutti.

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