Il lavoro usura
ma chi non ce l’ha più

La crisi ha molti volti: quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, della contrazione dei consumi, dei tagli nel bilancio familiare, delle rinunce quotidiane, delle file davanti alle mense della Caritas; oppure quello dei posti di lavoro perduti, delle vertenze aziendali che lasciano per strada migliaia di persone; o ancora il volto dei giovani che bussano invano a centinaia di porte senza che sia aprano mai, dei giovani che partono per l’estero con la valigia neppure tanto ideale che ricorda quella in cartone dei bisnonni. E poi c’è l’altro volto, sempre nascosto ma ora venuto alla luce dal 2008 in avanti in modo drammatico, il volto della morte, di chi non ce l’ha fatta e ha ceduto allo scoramento per il posto di lavoro perduto, per l’azienda che ha dovuto chiudere i battenti, per il precipitare della condizione sociale propria e della famiglia.

Nel 2013 in 149 – il dato è quello ufficiale, ma il numero è di certo più elevato – si sono tolti la vita per motivi economici, uno su due era un imprenditore, ma rispetto all’anno precedente è cresciuta la percentuale dei disoccupati. E’ questa la ricaduta diretta e drammatica della chiusura di 93 aziende al giorno registrata sempre nell’anno appena passato.

Drammi personali e collettivi, il prezzo più tragico della recessione infinita che ha investito l’Italia, drammi che quasi mai trovano salvagenti a cui aggrapparsi. Eppure da Como si apre uno spiraglio attraverso cui lanciare la ciambella a chi sta per annegare: è l’iniziativa del S. Anna di mettere a disposizione un paio di psicologici per assistere, dare una mano a chi si è visto il mondo del lavoro (e, di conseguenza, anche quello personale) crollare intorno. Una quarantina di casi esaminati, la metà già entrati nel programma di sostegno psicologico. Persone, donne più che uomini, alle quali la nuova condizione ha provocato un terremoto globale dell’identità e della personalità, compromettendo l’autostima e perfino la percezione del mondo esterno tanto che, al di là delle reazioni istintive, succede che viene annullata anche la capacità di reagire e mettersi in gioco, per ritrovare una nuova e diversa prospettiva di vita.

Quaranta casi nel Comasco, senza dubbio la punta dell’iceberg in una provincia che, per fortuna, ha tassi di disoccupazione o inoccupazione inferiori a quelli di altre zone dello stesso Nord Italia. Quanti non hanno trovato la forza o la possibilità di ricorrere a questo sostegno, quanti potrebbero essere i casi a cui l’iniziativa del S. Anna non riuscirebbe a dare una risposta per la limitatezza delle risorse. Se il lavoro è un’emergenza, lo è pure la condizione psicologica di chi non c’è l’ha più e non ce la fa a individuare le strade per ritrovarlo. Il Job Act di Matteo Renzi ha spunti che possono costituire l’embrione di una risposta adeguata, laddove il licenziato non dovrà più battere le strade e bussare alle porte per chiedere un’occupazione, ma sarà assistito, accompagnato quasi per mano nella ricerca e nella nuova collocazione.

Ma non basta, non può bastare perché, come ha scritto il famoso economista Federico Caffè «nessun male sociale può superare la frustrazione e la disgregazione che la disoccupazione arreca alle collettività umane».

Quel che è necessario è una protezione civile che offra un ombrello completo a chi il lavoro non ce l’ha più o ha visto la sua impresa crollare, che sia capace di assistere il lavoratore come il manager o l’imprenditore nel suo quotidiano, capace di assisterlo nella caccia alla nuova occupazione e, al pari, quando si ritrova da solo o nell’intimità della famiglia. perché alla fine lo slogan coniato al S. Anna (“Stai bene con il tuo lavoro”) diventi la stella polare del Job Act di Renzi o di qualsiasi altro.

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