Imparare a vivere
in un mondo cattivo

Parigi è sotto attacco. Ma l’Italia non trema: sui nostri figli veglia Alfano. Le grandi tragedie planetarie, soprattutto quelle legate al terrorismo, hanno almeno un aspetto positivo. Mostrano con limpidezza olimpica, sfacciata, inconfutabile la pochezza delle nostre miserie, il rancidume del minestrone comunicativo che ammorba da secoli il pietoso dibattito interno dei maestri di pensiero nostrani e, soprattutto, la devastante inadeguatezza non solo politica e culturale, ma addirittura fisica, plastica, lombrosiana di quasi tutti coloro che ci rappresentano, che ci governano e che dovrebbero invece costituire gli appigli, le certezze ultime, le rocche di Gibilterra contro le quali i marosi della storia sarebbero destinati a infrangersi.

È bello, per quanto possa sembrare paradossale in giornate come questa, alzare la testa dal ciarpame quotidianamente ammannito dai nostri talk show di serie b, dai nostri commentatori-tifosi di serie c, dalle nostre polemiche giudiziarie di serie d e guardare invece dritta negli occhi la realtà effettuale in tutta la sua mostruosa ferocia e complessità. E andare paragonando quella a questi, i fili insondabili, cruentissimi di un mondo spietato e incomprensibile, così come è sempre stato e sempre sarà - perché questa è la natura degli uomini, questa la parabola delle dinamiche hobbesiane tra popoli e civiltà allo stato nascente e allo stato morente - ai nostri sopracciò, ai nostri quaquaraquà, ai nostri imbucati, ai nostri signor tentenna misteriosamente approdati a giochi più grandi di loro.

È una parte in commedia che non siamo in grado di interpretare. L’ultimo dignitoso precedente storiografico risale alla stagione del terrorismo rosso e nero, che una classe dirigente per tanti versi marcia, omertosa e ideologizzata, ma dalla lunga storia e dalla profonda cultura, gente che aveva visto i totalitarismi, quelli veri, e la guerra, quella vera, è riuscita comunque a vincere. Dopo, contrappasso della pace e del benessere, è partito il circo. E non è una questione di (pseudo) destra oppure di (pseudo) sinistra, ma di profilo antropologico, di standing esistenziale. Quanto appare fuori luogo Renzi - e non parliamo della sua corte, per carità - nel momento delle decisioni irrevocabili, quanto si sta dimostrando totalmente fuori luogo, fuori contesto, pesce fuor d’acqua in una pièce che non gli appartiene, che non concepisce e della quale non conosce i tempi, i modi, le battute, le pause. Ed è lo stesso drammatico limite - forse questa la loro più profonda e inquietante affinità - che tante volte si è riscontrato nel Berlusconi presidente del consiglio. Che c’entra l’immaginario collettivo del cavaliere con la paura, il sangue, la violenza, la morte? La sua è - com’è che dicono quelli intelligenti? - una narrazione che si sostanzia di gioia, felicità, economia che tira, squadroni che alzano coppe, famiglie che spendono, viaggiano, consumano, tutto un pensare positivo - detto senza alcuna ironia, davvero - che alleggerisce la vita e la coccola in un microclima di aspettative, di speranze, di applausi da convention e tutto questo non ha niente a che fare con gli anni della crisi e del terrorismo globale. Lui e Renzi sono uomini da cicli espansivi, positivi, goderecci: sono disarmati e disarmanti in scenari così eterodossi rispetto ai loro orizzonti.

Poi, c’è l’ala militarista. E qui passiamo al puro grottesco. Cosa resta dei proclami del feldmaresciallo Salvini e della generalessa Meloni - dagli al negro, dagli al ladro, dagli al rom, e vai giù di ruspa e bombarda il barcone e polverizza l’islamico e spara al primo che si muove per strada - dopo una macelleria del genere? Che ci rimane di spendibile delle pagliacciate da comizio, delle intemerate da osteria davvero inarrivabili se si punta a vellicare la panza di un uditorio composto da ubriachi del bar della Pesa, nobildonne agée scongelate dal Vittoriale, reduci di Adua e di Custoza, pistoleros in sonno, oltre che da svariate sagome di cartone per fare volume in piazza? Cosa resta ora di tutto questo, di questo sbraitare che è colpa dell’euro, della Ue, di Prodi, di Garibaldi? Che si fa, si invade la Siria con i carrarmati di Mussolini? Si spezzano le reni alla Libia? Si internano tutti gli immigrati a Donnafugata? Anche se è vero che sul Grande Evento incombe una paurosa inadeguatezza planetaria, a partire dal tremebondo Hollande fino al banalissimo Obama, che in politica estera è responsabile di tanti e tali disastri che se non fosse nero e tanto glam lo avrebbero già attaccato su per i piedi a un qualche drone come un Bush qualsiasi, anche perché al suo confronto un demone dal lungo passato come Putin fa la figura del gigante. E invece niente, a lui sono sempre concesse chiacchiere e distintivi. Miracoli del politicamente corretto.

E, infine, ci siamo noi del rutilante mondo dei media, sul quale, pochi minuti dopo l’inizio della strage, è piovuta una profetica, strepitosa, per quanto inascoltata, minaccia di Giuliano Ferrara: «Il primo che scrive Parigi brucia lo prendo a calci». Illuso. Passato lo choc, è scattata - con alcune lodevolissime eccezioni - la nostra classica partita doppia. Da una parte, la disfida tra Coppi e Bartali: yankees contro kefiah, dottor Stranamore versus ginostrada, lepenisti lefevriani all’attacco dei moralisti con il ditino alzato, reduci del fallicismo oltranzista addosso ai teorici del ce la siamo andata a cercare. Oppure, in alternativa, la consueta ammorbante colata di retorica e melassa: Parigi colpita al cuore; ma la democrazia non si farà intimidire!; chi ridarà il sorriso ai nostri bambini?; senta, cos’ha provato quando le hanno scaricato addosso mezzo kalashnikov?

È un mondo cattivo, senza pietà, che racchiude dentro di sé un cuore selvaggio. Sarebbe il caso che i nostri bamboccioni - e noi peggio di loro, visto che li votiamo - uscissero dalle maschere di Crozza e imparassero a vivere. Che è anche l’unico modo per sopravvivere.

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