La partita a scacchi
del sindaco d’Italia

Enrico Letta si prepara ad incassare una fiducia condizionata. Troppo fresca l’elezione di Matteo Renzi alla segreteria del Pd per parlare di un vero accordo di legislatura con il sindaco rottamatore.

Non a caso Renzi si è dato un paio di mesi di tempo per imprimere una svolta ad un governo che ha cambiato natura, con il passaggio di Silvio Berlusconi all’opposizione e anche con il profondo rinnovamento del Pd (in gran parte ancora da attuare). Che cosa accadrà in questo lasso di tempo è per ora difficile da dire: Giorgio Napolitano ha tuonato contro le «dannate» polemiche di stampo preelettorale quando il ritorno alle urne non è all’orizzonte. Ma è sembrato più un tentativo di congelare la prospettiva (la cui esistenza è implicitamente riconosciuta) che una certezza assoluta.

La rivolta di piazza dei “forconi” ha aggiunto un elemento di instabilità non preventivato. Beppe Grillo soffia sul fuoco e invita addirittura le forze dell’ordine ad abbandonare i politici e unirsi alla protesta: una scelta ai limiti dell’ eversione secondo tutti i partiti, ma comunque indicativa del fatto che le manifestazioni a macchia di leopardo rappresentano l’esplosione di una vera e propria questione sociale e non un semplice problema di ordine pubblico. È uno sfondo che accumula nubi sull’orizzonte dell’esecutivo.

Esecutivo di scopo, secondo il neosegretario del Pd che a Letta chiede di assumere iniziative concrete sul lavoro (stanziamenti eccezionali per la lotta alla disoccupazione) e sulle riforme con un definitivo taglio ai parlamentari e ai loro costi e con l’abolizione del Senato. Con un timing vincolante.

L’impressione è che Renzi non si voglia fare incastrare nella solita partita a scacchi: chiede risultati prima della fine di febbraio. Soprattutto sulla legge elettorale la cui approvazione è però nella mani del Parlamento e non del governo.

Questa è forse la questione più spinosa per il sindaco di Firenze. C’è infatti un braccio di ferro tra Camera e Senato su chi debba esaminare per primo la riforma, con una lotta che passa all’interno degli stessi gruppi. E soprattutto non c’è nessuna reale base d’intesa. Gli alfaniani appoggiano cautamente il modello “sindaco d’Italia” proposto da Renzi, anche per tenere aperto un canale di dialogo con la linea presidenzialista del Cavaliere, ma le molte bozze che girano in Parlamento la dicono lunga sul pericolo di una ennesima dilatazione dei tempi.

Ciò fa pensare che Renzi possa optare alla fine per una legge di salvaguardia come garanzia di non sprofondare nelle sabbie mobili e per tenere aperta la possibilità del ritorno al voto se le cose dovessero volgere al peggio. Per il neosegretario c’è anche la necessità di scongiurare la “s cissione silenziosa” evocata tempo fa da Massimo D’Alema. Al momento tutti giurano sull’unità del partito ma la decisione dell’ex premier di tenersi fuori dal Pd, coniugata al rifiuto di Gianni Cuperlo di assumere la presidenza dell’assemblea, è il segnale di un malessere profondo della vecchia guardia.

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